Che si tratti di un omaggio, più che di una ripresa o di un
calco, è chiaro fin dal titolo.
A più di quarant’anni dalla sua prima scrittura per la
scena, presentata come giullarata
popolare, Mistero buffo è tra le
commedie di Fo più contese dai suoi eredi diretti, chi più titolato chi meno.
Non stupisce, trattandosi di un’opera malleabile, perpetuamente in divenire, un
robusto contenitore in cui inscatolare materiali eterogenei.
Forte della sua esperienza e sostenuto da una solida
direzione registica, Paolo Rossi decide scaltramente di evitare rischiosi
confronti; prendendo alla lettera le parole del premio Nobel, «rubare in teatro
è cosa buona, copiare è da coglioni», si appropria dunque del contenitore, come
di un appartamento ammobiliato, e vi si trasferisce con i propri oggetti
personali, vale a dire con la propria fisicità (meno elastica ed atletica
dell’originale ma più nervosa e caracollante), con la propria voce (dalla grana
grossa, e più costipata del solito per via di un’influenza), e con il proprio
pubblico, abituato alla sua fanciullesca e impunita sfacciataggine. A trasloco
completato, se la struttura di base non ne esce snaturata, la segnatura riconoscibile
del comico di Monfalcone è pienamente evidente.
Come Fo, Rossi accoglie i visitatori in un’anticamera, li
mette a proprio agio con un lungo prologo satireggiante (che agisce come una captatio benevolantiae), e poi li
accompagna, stanza per stanza, a vedere come ha completato l’arredo. Buona
parte del pubblico sa cosa aspettarsi, spera di trovare i “misteri” che
raccontava Fo, narrazioni apocrife o prestiti dall’epica popolare come La
nascita del giullare; e non resta deluso da come le doti mimiche e
affabulatorie di Rossi riescano a rivisitarli. Anche il grammelot, la lingua
falso-vera con cui Fo impastava i suoi racconti, ne esce trasfigurato, riportato
su un’accennata e comprensibile cadenza tra il lombardo e il friulano.
La novità più significativa (da cui può trarre
giustificazione l’attributo pop del
titolo, che sta per popolare, cioè attuale,
dotato di un’ironia alla portata di tutti) consiste nella scelta di arieggiare
la forma monologica inserendo nelle due ore di spettacolo momenti
comico-musicali, in cui Rossi, tra canzone e canzonatura, si appoggia alla
“spalla” Emanuele Dell’Aquila imbastendo un botta e risposta sul filo del
nonsense (che potrebbe ricordare quelli tra Paul Shaffer e David Letterman). In
effetti la dominante dello spettacolo è l’impronta decisamente cabarettistica,
lo sberleffo grottesco, l’invettiva satirica che lo spettatore attende per
spanciarsi dalle risate; nella seconda parte, grazie alla presenza di Lucia
Vasini nei panni di un’attrice svampita e psicolabile, lo spettacolo tocca il
suo apice. Dallo zenit al nadir: la stessa Vasini repentinamente si trasforma,
per diventare la protagonista dell’episodio più lirico e struggente tra quelli
ispirati dal testo originale, ovvero la polifonia dialogica della Passione di
Cristo, in cui l’attrice, in una scena dai toni ambrati, fa risuonare le voci
concitate delle pie donne ai piedi della croce insieme a quella, scura e
penetrante, di Maria.
Due ore di acclamatissima performance, vista giovedì 29
marzo alla Città del Teatro di Cascina.
Il Mistero buffo
nella versione pop 2.0
di e con Paolo
Rossi
riduzione e
adattamento Paolo Rossi e Carolina De La Calle Casanova
regia Carolina
De La Calle Casanova
con la partecipazione
straordinaria di Lucia Vasini
musiche composte ed
eseguite dal vivo da Emanuele Dell’Aquila
produzione La
Corte Ospitale
in collaborazione con Fondazione Giorgio Gaber
da Pisanotizie.it, 30 marzo 2012