Malattia, emarginazione, irregolarità sono i vocaboli che
meglio raccontano l’operazione compiuta da Pippo Delbono in un ventennio di
carriera: il suo teatro spudorato e autobiografico (non meno delle recenti incursioni
cinematografiche, come attore e soprattutto come film-maker – lunedì sera il
cinema Arsenale ha presentato in anteprima il suo ultimo film, Amore carne) rifiuta ostentatamente ogni
struttura, e con essa la logica che ne deriva. Non ha fini propriamente
estetici ma fa del rifiuto un atto estetizzante. Se la cronaca dovesse corrispondere
precisamente alla forma dello spettacolo, dovrebbe registrare una serie di urti
e frizioni che corrugano le superfici del fatto scenico facendone uno spazio
irregolare, continuamente percorso da effetti figurativi e mimici disarmonici, in
un succedersi di vertici poetici disgregati, come tanti possibili finali: momenti
di abbandono sentimentale, sganasciamenti da varietà di bassa lega, numerosissime
entrate e uscite, assorbite da una riuscita ambientazione che ha l’aspetto
tetro e incombente di un istituto di detenzione, se non di un bunker.
Come nel precedente La
Menzogna, in cui raccontava la tragedia che coinvolse alcuni operai della Thyssen
Krupp di Torino, Delbono accoglie la platea scavernando dalla sua postazione
dotata di microfono un resoconto di un movimentato periodo professionale,
coincidente con uno spettacolo operistico progettato e abortito (di cui Dopo la battaglia conserva alcuni
lacerti verdiani). Il racconto fa da volano a una sequenza di memorie addensate
in monologhi informali, scene d’insieme, filmati e documentari che provano ad
aggredire la platea, a coinvolgerla in un atteggiamento di protesta (come
quello particolarmente doloroso sulla situazione degli Ospedali psichiatrici
giudiziari).
Il fare ostinato di Delbono, l’urlo e il dimenamento, il
corpo a corpo con cui vorrebbe sfidare le roccaforti della coscienza, ha le sue
fondamenta nella ricerca insistita di uno stimolo che prenda di mira i nervi dello
spettatore, eccitandone momentaneamente la parte fisica. I suoi materiali sono frammenti
di un disegno mentale, segnacoli, note a margine, sogni imperfetti strappati a
un dormiveglia, come le incursioni di un violino guizzante, o le tracce
coreutiche disegnate da danzatrici d’eccezione, tra le quali Marigia Maggipinto,
un decennio di esperienza con il Tanztheater di Pina Bausch.
Proprio il ricordo della Bausch – uno dei punti di
riferimento del training di Delbono – a pochi mesi dalla sua scomparsa, così
come il ritratto affettuoso, seppur carico di conflitti, della madre, e le
citazioni dalle pagine amate di Kafka, Pasolini, Artaud, Alda Merini, Walt
Whitman, lascia intuire l’assillo della memoria, o meglio il terrore dell’ombra,
del silenzio e dell’oblio. Un terrore esorcizzato dalla musica, dal canto (tra le
scelte migliori nel juke-box dello spettacolo la coreografia “in rosso” sulle
note dolenti di Adio querido, cantata
da Maria Salgado), dalla prepotenza del corpo, che si sfoga in tableaux vivants assemblati come in un
impaziente rito tribale.
Ancora una volta la presenza scenica di Bobò, l’anziano
sordomuto che accompagna Delbono da molti anni, è determinante nell’operazione,
con la sua tenera obbedienza e il suo docile trasformismo. Non c’è bisogno di
conoscere la loro storia personale per comprendere il rapporto simbiotico
instauratosi tra i due, l’accordo mutualistico con il quale ciascuno offre
all’altro la propria solidale diversità.
Ma principalmente, dopo due ore di spettacolo, dalla camera
oscura del palcoscenico Delbono emerge dopo bagno di sviluppo, offrendo a se
stesso la possibilità di concedersi al pubblico: veemente, citazionista,
autoreferenziale, come di consueto.
Lunghi minuti di applausi per la compagnia d’arte Delbono,
martedì 28 febbraio alla Città del Teatro di Cascina
Dopo la battaglia
di Pippo
Delbono
con Dolly
Albertin, Gianluca Ballaré, Bobò, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria
Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Marigia
Maggipinto, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
con la
partecipazione di Christophe Clad
scene Claude
Santerre
costumi
Antonella Cannarozzi
musiche originali
Alexander Balanescu
luci Robert
John Resteghini
produzione
Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Théâtre du Rond Point-
Parigi, Théâtre de la Place – Liegi, Thèatre National de Bretagne, Rennes
si ringrazia: Teatro Pubblico Pugliese e Cinémathèque
suisse
da Pisanotizie.it, 29 febbraio 2012