28 marzo 2010

Chiara Guidi, o la forma della voce



A buon diritto i fondatori della Societas Raffaello Sanzio godono oggi di un credito difficile da scalfire. In virtù di una riconosciuta posizione di primato nei territori della ricerca teatrale, conquistata in quasi trent’anni di attività, i progetti che conducono individualmente ricevono un’attenzione costante, chiamando a raccolta buona parte della critica e accendendo la curiosità di un pubblico ormai multigenerazionale. Tra i percorsi che traggono origine dalla formazione iniziale, potendosi fregiare del marchio SRS, quello di Chiara Guidi è il più concentrato sulla dimensione acustica, da intendersi come restituzione, attraverso la musica, di un aspetto solido e concretamente autonomo al valore significante della voce.
Per creare l’ambiente sonoro di un’opera-concerto come Ingiuria la Guidi ha scelto il violinista Alexander Balanescu (fondatore del celebrato quartetto d’archi che porta il suo nome) e Blixa Bargeld (già solista della band di rock industriale Einstürzende Neubauten, e a lungo partner del gruppo di Nick Cave), che intervengono dal vivo, condividendo con lei il palcoscenico; mentre in consolle Teho Teardo (musicista e compositore per il cinema) ne campiona la voce costruendovi uno sviluppo dinamico basato su live looping, riverberi e alterazioni timbriche.
L’incontro di questi quattro nomi, quattro personalità artistiche borderline, dalla presenza scenica fortissima, avviene attraverso le parole di Claudia Castellucci: testi poetici dall’ambiguità pietrosa e sibillina, centrati sul potere vivificante della maledizione, che la Guidi legge come preghiere di un breviario o formule rituali; la sua voce, atomizzata dall’elaborazione di Teardo e riflessa come in un gioco di specchi, si arrotola su se stessa e nelle pieghe trovano posto le prolungate vibrazioni del violino di Balanescu insieme con il segno vocale scurissimo di Bargeld.

L’offerta visiva della performance mi ha ricordato uno spettacolo visto l’anno scorso, un esperimento non molto distante da questo: NON splendore rock, in cui le poesie di Mariangela Gualtieri di Teatro Valdoca avevano come sponda il sound aggressivo di una rock-band, gli Aidoru. Come in quel caso, si deve parlare qui di un’infrazione del già labile confine tra teatro, rito e musica, e dell’audacia con la quale in un contesto teatrale si lavora sugli effetti elettroacustici. Purtroppo, allora come adesso, mi trovo a riflettere sulla natura scarsamente originale del progetto. Numerose esperienze di gothic-metal o symphonic-metal hanno già esplorato questo tipo di sonorità, coniugando l’aspetto lirico e quello performativo; le tecniche di live electronics hanno poi alle spalle decenni di impiego, con applicazioni decisamente più mature e sofisticate, basti pensare a Uri Caine. Oltre a questo, più ancora dell’angolosità impervia dei riferimenti – religiosi, letterari, musicali – si nota l’intenzionale snervamento del logos, del senso ultimo e profondo della componente testuale, fiaccato dall’incessante sforzo muscolare, in cui a una fase sistolica (la violenza dell’ingiuria, della parola ripetuta, dell’imprecazione liberatoria pronunciata con la potenza numinosa di un rito sciamanico) non segue una fase diastolica, capace di assorbire il “contenuto” della prima, bensì una seconda fase pulsoria, ancora più irruente. Il volume altissimo e l’equalizzazione sbilanciata verso le frequenze estreme dello spettro sonoro producono uno shock assordante, un impatto orrorifico, ma il “tutto pieno” che riempie la sala ha bisogno di repentini svuotamenti per potersi rigenerare, sicché la performance finisce con l’essere una sequenza di cataclismi ritmici che risulta fatalmente ripetitiva.

Un’ora di spettacolo e un inatteso bis, come in ogni concerto che si rispetti, al Politeama di Cascina, domenica 28 marzo.


INGIURIA
una sequenza utile per imprecare
da testi di Claudia Castellucci
con Alexander Balanescu, Blixa Bargeld, Chiara Guidi, Teho Teardo
suoni Boris Wilsdors
luci Fabio Sajiz
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
coproduzione Romaeuropa Festival 2009

da Pisanotizie.it, 29 marzo 2010

21 marzo 2010

A Pontedera si parla napoletano per una sera



Ci sono certi aspetti di Napoli – certi ritmi, certe pose immutabili – che possono riconoscersi solo nel teatro di Raffaele Viviani. Pochi altri artisti sono riusciti a tradurre con tanto estro e sapienza mimetica gli enigmi più ironici e profondi della città: le cautele scaramantiche nei confronti dell’ineluttabilità della sorte, la coscienza disordinata che sa esprimersi soltanto come atto collettivo, la polifonia a un tempo farsesca e disturbante dell’umanità sottoproletaria.
Il lavoro che Arturo Cirillo ha intrapreso con gli allievi di Punta Corsara (l’impresa stabile di formazione attoriale a Scampia) e di cui Fatto di cronaca di Raffaele Viviani a Scampia costituisce il frutto maturo, fa vibrare tutte queste corde e le mette in risonanza, accelerando il battito del testo vivianesco, datato 1922.
Mentre il marito, Arturo, è imbarcato, la moglie, Clara, lo tradisce: lui torna e scopre la tresca; lei muore precipitando dall’appartamento al quinto piano. Ma si è trattato di un incidente e l’unico a poter raccontare la verità è il disgraziato ragazzo di servizio, Scemulillo, la cui testimonianza invece, resa nel caos esagitato e impaurito del vicolo, farà incarcerare il marito. L’innocenza di quest’ultimo si scoprirà qualche mese dopo e Scemulillo finirà arrestato per l’accaduto.
Riportata in poche parole la sostanza del “fatto di cronaca”, si dovrebbe a questo punto restituire, cosa ben più difficile, la qualità cangiante di quegli spostamenti d’aria che sembrano animare l’andamento della messinscena; dall’armoniosità dei movimenti coreografici alla concitazione locutoria imposta agli attori, dalla concretezza sapida dell’inalterato dialetto napoletano alla frontalità del coro di personaggi, che nella seconda parte si profilano contro uno scenario in cui i colori della strada sembrano esplosi e gettati sul fondale.
«Partendo da un ambiente di arricchiti, la vicenda precipita in un vicolo popolato da povera gente e si conclude nella miseria della casa di Scemulillo. Il nostro lavoro cerca di raccontare, con pochi elementi, questo cambio di luoghi – spiega il regista – attraverso un graduale restringimento del luogo dell'azione e una stilizzazione prima di
un terrazzo, poi di un vicolo e infine di una stanza».
Cirillo si fa dunque interprete di un lirismo popolare, profondamente musicale, ieratico per certi versi, che non giudica e non pronuncia alcuna morale. È un’operazione compiuta con mano ferma, cercando di contenere la possibile deriva verso il bozzetto caricaturale (in questo senso la scelta, forse obbligata, di assegnare alcune parti en travesti rappresentava un rischio) e maneggiando con padronanza assoluta gli attributi degli attori a disposizione: eccellente la prova dei professionisti (Salvatore Caruso, che interpreta Don Giovanni, padre di Clara, e Rosario Giglio nei panni di Arturo) e sorprendente per tensione e misura quella dei giovani, da cui emerge lo Scemulillo di Vincenzo Nemolato (nel ruolo che fu di Viviani), sempre al centro della scena in forza dei suoi scatti spastici, delle sue uscite scombinate, delle sue furbesche vigliaccherie.
Concepito nella primavera del 2009 e presentato nel giugno scorso al Napoli Teatro Festival, lo spettacolo è arrivato adesso a un livello di compiutezza pienamente avvertibile, riconosciuto e ripagato dal pubblico.

La serata del Teatro Era è proseguita con I fiori d’arancio di Andrea Saggiorno, un’altra opera presentata in anteprima durante il Festival napoletano della scorsa estate.
Visioni intermittenti su pellicola, come prelevate da un cinema presonoro (con il commento musicale del pianista in scena), letture poetiche e azioni muscolari compongono una sequenza erratica di conclusioni, poste in sospensione, in cui gli attori fanno del proprio corpo ombra, luce e colore, dietro un velo bianco sfiorato da due fasci luminosi. Messinscena della vita nella sua ritualità e instabilità, si tratta di un lavoro di non semplice ricezione, che accumula segni e immagini, procedendo per atterraggi senza essere mai decollato: senz’altro da rivedere.


Fatto di cronaca di Raffaele Viviani a Scampia
a cura di Arturo Cirillo
con Salvatore Caruso, Tonino Stornaiuolo, Vincenzo Nemolato, Christian Giroso, Emanuele Valenti, Maddalena Stornaiuolo, Pasquale De Martino, Gianni Rodrigo Vastarella, Valeria Pollice, Giuseppina Cervizzi, Mirko Calemme, Rosario Giglio
fonico Punta Corsara Marco Esposito
macchinisti Punta Corsara Giuseppe Di Lorenzo, Enrico Giordano
ideazione dello spazio scenico Dario Gessati
coordinamento costumi Gianluca Falaschi
musica Francesco De Melis
disegno luci Badar Farok
pianoforte Enrica Sciandone
suono Davide Abruzzese
produzione Punta Corsara - Fondazione Campania dei Festival in collaborazione con Teatro Stabile di Napoli

I fiori d’arancio
letture da Ludwig Wittgenstein, Jean Genet, Publio Ovidio Nasone, Derek Jerman, Fatos Arap
regia e disegno luci Andrea Saggiorno
con Gaëlle Cavalieri, Fulvio Padulano, Gianluca Raia
suoni Carmine Onorati
assistente alla drammaturgia Carmela Covino
musiche Emiliano Bugatti
produzione Associazione culturale DAMM

da Pisanotizie.it, 22 marzo 2010

12 marzo 2010

Sapessi com'è strano darsi appuntamento ... a Londra



In una suite di un albergo londinese un ricco uomo d’affari peruviano, Chispas Bellatin, riceve la visita di Raquel Saavedra, una donna affascinante che dice di essere la sorella di Pirulo, suo vecchissimo amico. Chispas e Pirulo non si vedono da trent’anni a causa di una lite che interruppe la loro fraterna amicizia alla fine dell’adolescenza; è un passato lontano, che Raquel sembra ricordare benissimo, fin nei minimi particolari, a differenza di Chispas, sorpreso perfino dall’esistenza della donna, di cui non aveva mai sentito parlare. Col procedere della conversazione i particolari affiorano gradualmente: Chispas aveva colpito con un pugno l’amico poiché questi aveva tentato di baciarlo; aveva poi provato a scusarsi ma Pirulo, umiliato e scosso, si era negato, ricavando tuttavia da quel momento il coraggio di riconoscere la propria vera natura e cambiare sesso, diventando Raquel; anche per Chispas l’episodio non era rimasto senza conseguenze, anzi ne aveva condizionato ossessivamente la vita sessuale, portandolo a ostentare un’intransigente quanto fasulla omofobia.
Mai del tutto divise, le vite dei due amici tornano a intrecciarsi in una dimensione illusoria, onirica, alternativa. Al momento opportuno la pièce di Vargas Llosa scarta infatti verso una narrazione non più lineare, secondando il gusto tipicamente sudamericano per la finzione, per lo specchio opaco della psiche, capace di frantumare la realtà e inventare storie alle soglie della memoria. “È in questo crinale, in questa zona di confine, che i protagonisti si muovono continuamente, in bilico tra un mondo reale e uno immaginario altrettanto concreto e vissuto con la stessa intensità della vita vera”, annota il regista Maurizio Panici. 

L’impianto scenografico (opera di Francesco Ghisu), fino a quel momento inerte, acquista allora consistenza drammaturgica: un velo di tulle bianco scende a raccogliere le proiezioni della fantasia di Chispas (che ridicono la storia come fosse quella di un matrimonio felice, poi di un omicidio messo a tacere); l’illuminazione proveniente dal bovindo a fondo palco cambia significativamente colore, e infine un ultimo movimento scenico lascia indovinare una conclusione sorprendente. Il palcoscenico ruota di un quarto di giro, recuperando una riconoscibile ortogonalità: Pirulo è adesso il compagno di Chispas, coppia di fatto, oltre che soci in affari.
Germano Mazzocchetti, uno dei primi nomi del jazz italiano, ha composto per lo spettacolo una serie di musiche originali, brevi incursioni che arieggiano certo repertorio sudamericano, motivi dolenti alla maniera di Astor Piazzolla. David Sebasti, nei panni del maturo affarista, e Pamela Villoresi, che veste Raquel/Pirulo di toni bassi e cedevoli, portano le battute in maniera non del tutto soddisfacente, nuocendo loro qualche languore divistico di troppo.
Lo spettacolo (prodotto dall’Associazione Teatrale Pistoiese e Argot in collaborazione col Festival dei Due Mondi di Spoleto) ha tuttavia meritato al suo debutto, nel luglio scorso, l’apprezzamento di Vargas Llosa, convinto dalla scelta di un registro ironico, seppur greve e indeciso se virare al noir, e dalla rispettosa interpretazione del finale, che riporta in commedia il senso della pièce.

Applaudito come si conviene, Appuntamento a Londra ha impegnato per un’ora e mezzo gli spettatori del Teatro Rossini di Pontasserchio, venerdì 12 aprile.


Appuntamento a Londra
di Mario Vargas Llosa
traduzione Ernesto Franco
regia Maurizio Panici
con David Sebasti e Pamela Villoresi
scene Francesco Ghisu
costumi Lucia Mariani
musiche Germano Mazzocchetti
luci Emiliano Pona
video Andrea Giansanti

da Pisanotizie.it, 13 aprile 2010

5 marzo 2010

Scrosci di vita e di parole nel caos della città



Eleonora Danco è un nome abbastanza nuovo per i palcoscenici toscani. Lo è molto meno nella sua Roma, che le riconosce da diverso tempo qualità di attrice e scrittrice (una raccolta di suoi testi, tra cui alcuni scritti per Mario Martone, è stata presentata giovedì scorso nella nostra Facoltà di Lettere e Filosofia, Ero purissima il titolo, per Minimum Fax).

I due lavori portati in scena a Pontasserchio, Me vojo sarvà e Nessuno ci guarda, sono composti di frammenti, monologhi tragicomici in forma di poesia o flusso di coscienza, oppure dialoghi nebulosi senza comunicazione, cortometraggi di una umanità in sofferenza. Il tentativo della Danco, che ne è autrice, regista e interprete unica, è la rappresentazione dell’inquietudine e dell’agitazione a cui siamo consegnati, restituiti con una urgenza espressiva che si arma di movimenti parossistici e che prova a sfogarsi con l’incazzatura della voce. Nelle quattro sequenze in dialetto romanesco di Me vojo sarvà affiora dal profluvio di parole dei personaggi uno stato di paura costante, di repressione e frenesia, di ansia per la violazione dei propri diritti o della propria intimità, di inadeguatezza o di solitudine randagia. Nessuno ci guarda rinuncia invece al dialetto nel dar voce al monologo di una donna, fluttuante tra presente e passato, tra sgorganti ricordi d’infanzia e angusta quotidianità, un va e vieni con andamento cantilenante carburato da stereotipi e ascessi nevrotici.
Purtroppo la solidità della struttura, drammaturgica e scenica, lascia a desiderare nel suo insieme, e per molti aspetti lo spettacolo fa avvertire la mancanza di una direzione in grado di preservare i contenuti, dar loro la misura più corretta, mandarli a bersaglio con le dosi giuste di energia e sorpresa. La colonna sonora è tanto invadente e disordinata da minacciare l’ascolto e l’efficacia del testo; il disegno luci, che dovrebbe lavorare come un marcatore, segnalando le transizioni per ridondanza o contraddizione, si rivela invece, a conti fatti, inessenziale. Ciò che resta è la capacità della Danco di darsi come performer ironica, potente e comunicativa: esplora il palcoscenico vuoto, si ferma in un punto addensandovi le parole o lo percorre da un angolo all’altro come una pennellata smaniosa; la sua fisicità volitiva, mai sfacciata, sottrae volgarità anche al frequente e compulsivo turpiloquio, affannosamente pronunciato con una vocalità debordante, seppure troppo ferma e invariata.
Mi pare infine che questi “corti” abbiano in comune almeno un paio di legature, punti dolenti nell’esperienza collettiva: la città e l’infanzia. Nel racconto dei personaggi Roma non è connotata dai suoi luoghi e segni inconfondibili, bensì compare come generico fattore di stress: è la metropoli sboccata di periferia ma anche quella “sbroccata”, sul lavoro, nel traffico, in famiglia. L’infanzia è invece vissuta come una sponda della memoria, a cui si torna non tanto per concedersi una tregua ma per l’inconscia necessità di ripetere a se stessi come siamo arrivati al punto in cui siamo, per quali strade, quali radici.

Ritmo serrato per oltre un’ora; performance convincente per il pubblico del Teatro Rossini di Pontasserchio, venerdì 5 marzo.


Me vojo sarva’ - Nessuno ci guarda
di e con Eleonora Danco
musiche scelte da Marco Tecce
costume MDM
disegno luci Narda
luci e fonica Claudio Cianfoni
assistente alla regia Flavia Parboni
organizzazione Fabrizio Perrone in collaborazione con Rosella Bettinardi
regia Eleonora Danco

da Pisanotizie.it, 6 marzo 2010