16 marzo 2012

C'è di mezzo il mare



L’antefatto, ovverosia il motivo generatore dello spettacolo, è tristemente noto e raccoglie in sé tutte le storie tragiche di emigranti, clandestini e naufraghi del mare. Una popolazione di uomini, donne e bambini senza nome (ma chi non ha nome ha un numero, matematica spersonalizzazione) che dalle coste africane attraversa il Mediterraneo, in cerca di un avvenire migliore. Non è detto che faccia ritorno a casa; non è detto che giunta a destinazione trovi quanto desidera; peggio ancora, non è detto che arrivi a destinazione: “stipati nel barcone, infradiciati, mangiati da un freddo atroce, gridano e pregano, pregano e son presi a schiaffi; una Bibbia e un Corano inzuppati nell’acqua, lo stomaco che urla dalla fame: patetici”. Così li descrive il grottesco militare interpretato da un demoniaco Alessandro Renda, ingallonato come i generali fantocci di Enrico Baj, unico abitante di una misteriosa isoletta vulcanica, incaricato da un fantomatico Ministro dell’Inferno (ci vuol poco, è sottinteso, a sostituire una “f” con una “t”) di stilare il censimento delle vittime e dei dispersi in mare.
Guanti e occhiali scuri, assuefatto alla sua funzione di pallottoliere mortuario, il generale fa ordine tra i cadaveri, a ognuno un numero, per ogni cifra una storia: destini che si somigliano, racconti che si fanno eco. Nella deriva quasi psicopatica del suo contegno, egli arriva a incarnare i fantasmi che probabilmente non hanno la forza di perseguitarlo. 

La scena (pensata da Ermanna Montanari ed Enrico Isola) è un antro buio; una sorta di pietra tombale fa da piedistallo sul quale il burocrate, emergendo dall’ombra, pronuncia il suo monologo. La sua voce ha il timbro cavernoso di chi si trovi a corto d’aria; voce che diventa furiosa quando si lancia in un’invettiva contro i pesci voraci che rendono più difficile il suo compito, divorando i connotati delle vittime (forse alcune coscienze avranno sobbalzato, scorgendovi la metafora di una civiltà avida e insensibile).
Nel rievocare il dolore e la disgrazia di speranze disilluse, succede che la partitura drammaturgica proceda percuotendo sempre le stesse corde; a conti fatti, lo spessore poetico dello spettacolo deve molto all’apporto dei fratelli Mancuso (già esecutori di diverse “colonne sonore” per Emma Dante). Entrambi in scena, seduti sul fondo del palcoscenico, i due polistrumentisti siciliani impregnano il monologo del generale di sonorità primitive e meticcie: che vengano da un flauto, da un harmonium, da un liuto, o dal loro struggente e inconfondibile canto vibrato, queste portano il respiro e la memoria di genti lontane.
Pur portando il titolo di uno dei primi spettacoli della compagnia (che al tempo vedeva in scena quattro attori storici della formazione, Luigi Dadina, Ermanna Montanari, Marcella Nonni e Renato Valmori), questo testo di Martinelli trae origine da un recente viaggio a Mazara del Vallo e dal contatto con quella terra estrema di frontiera ricava la sua essenza. Nella consuetudine del lavoro teatrale delle Albe, esso ha dato vita a un ciclo laboratoriale, inserito in un progetto più ampio sul tema dell’emigrazione.

Un’ora di spettacolo, visto al Teatro Rossini di Pontasserchio, venerdì 16 marzo.


Rumore di acque
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
in scena Alessandro Renda
musiche originali eseguite dal vivo Fratelli Mancuso
spazio, luci, costumi Ermanna Montanari, Enrico Isola
direzione tecnica Enrico Isola
coproduzione Ravenna Festival, Teatro delle Albe-Ravenna Teatro,
"Circuito del Mito" della Regione Siciliana, Sensi Contemporanei col patrocinio di Teatro delle Albe opera in Ravenna Teatro

da Pisanotizie.it, 17 marzo 2012