Fino a che punto l’uomo possa spingersi alla ricerca di
un capro espiatorio sul quale riversare la colpa di una sventura, nel vano
tentativo di dominare le proprie paure: in estrema sintesi, è questo il
fondamento del saggio storico che impegnò Alessandro Manzoni per molti anni. Vi
è riportato con la lucida oggettività di un giurista il terribile caso capitato
al commissario di sanità Guglielmo Piazza e al barbiere Gian Giacomo Mora, ingiustamente
bollati come “untori”, torturati e giustiziati nella Milano del 1630.
La versione definitiva di questa cronaca – lunga,
dolorosa, che indulge a poche piacevolezze stilistiche – spinse il suo autore a
separarla dal corpo principale di I Promessi
Sposi, al quale in origine apparteneva, una tra le numerose deviazioni che
il romanzo si concede. Prima che la letteratura etnologica e psicologica
individuasse nell’eliminazione di una vittima sacrificale un processo che
risale alla comunità arcaiche, Manzoni trasse da questo caso esemplare
l’espressione di quel senso di fatalità e inquietudine che accompagna certe
ingiustizie.
Come tradurre scenicamente un testo del genere? Il
progetto messo a punto da Silvio Castiglioni con la regia di Giovanni Guerrieri
parte da un indispensabile rimaneggiamento del testo e procede attraverso un
robusto lavoro di squadra. Il corpo a corpo deve essere stato impegnativo,
assai laborioso: sintetizzare la verbosità manzoniana senza alterarne gli umori,
condensarla in una sorta di discorso indiretto che non avesse la retorica accattivante
del reportage ma uno spessore tangibile e carico di tensione, e infine far
affiorare simboli latenti da oggettualizzare.
L’operazione, assai rischiosa in effetti, deve molto
della sua riuscita alla grazia dei due interpreti. Silvio Castiglioni ed Emanuela
Villagrossi, in abiti borghesi e guanti bianchi, hanno la voce farinosa e l’atteggiamento
a tratti sbigottito di chi precipita in una situazione sconosciuta e con
timoroso pudore vi si adegua; cercando tra gli oggetti di scena gli accordi
giusti per intonare un racconto così abnorme da sembrare falso, ma tanto logico
nel suo sviluppo da risultare totalmente credibile. Sicché i pezzi d’epoca che
ingombrano la stanza – valigie, mobili consumati, suppellettili accatastate e
un ventilatore acceso che sfoglia senza pace le pagine di un libretto – danno
all’ambiente l’aspetto di un’antichità vissuta, ricopertasi di memorie e infine
abbandonata.
Come il buio iniziale è solo alleggerito dalla pallida
luminosità di una lampada, così l’atrocità del resoconto è in parte mitigata
dalla pacatezza dei gesti congiunti alle parole, come in un lento rituale: lo
scrivere su una lavagna o l’erigere una torre instabile fatta di calici,
metafora trasparente delle confessioni estorte ai due imputati.
In questa penombra che si carica via via di rumori
sommessi e minacciosi, le due voci narranti si cercano, si incontrano per poi
raggiungere l’unisono sul finire dell’ignominiosa vicenda, quando al termine
dello spettacolo manca solo un’ultima scena, che sceglie di richiamare la
fiduciosa quiete con cui si conclude I
promessi sposi.
Meno di un’ora di spettacolo, visto al Teatro Sant’Andrea
giovedì 24 novembre.
Storia della Colonna
infame
da Alessandro
Manzoni
consulenza
letteraria Luigi Weber
regia Giovanni
Guerrieri
con Silvio
Castiglioni, Emanuela Villagrossi
disegno luci Giuliano
Bottacin e Anna Merlo
assistente
scenografo Petra Trombini
progetto Silvio
Castiglioni
produzione CRT,
Centro di Ricerca per il Teatro, in collaborazione con Celesterosa/I Sacchi di
Sabbia e con il sostegno della Regione Toscana
da Pisanotizie.it, 25 novembre 2011