Che cos’hanno in comune il rapinatore napoletano Antonio
Marigliano detto Eros (Lino Musella) e lo spavaldo trader Geremia Cervello
(Paolo Mazzarelli), il cui nome adombra grottescamente quello di Jerome Kerviel
(forse qualcuno ricorderà il recente scandalo della più importante banca
francese, la Société Generale, costretta a denunciare un passivo miliardario
per il quale accusò le avventate speculazioni di Kerviel)? Essi rappresentano la
materialità del lavoro (e della sua degenerazione malavitosa) a confronto con
le credenziali immateriali del mondo finanziario (e le sue fasulle aperture
creditizie). Tuttavia si trovano reclusi nella stessa prigione, alla vigilia di
una visita papale che per il primo, responsabile dell’inutile laboratorio di
falegnameria del carcere, significa la beffarda benedizione sopra un’esistenza
sconfitta, per il secondo l’occasione di evadere e diffondere le sue
sconvolgenti rivelazioni.
Come in Figlidiunbruttodio,
lo spettacolo che Musella e Mazzarelli hanno presentato durante la rassegna
Teatri di Confine un anno fa, si intrecciano in Crack machine due storie e due coppie di personaggi. Muovendosi tra
le linee di fuga di una scena costruita per potersi rimodellare rapidamente, i
due attori interpretano anche l’avvocato Alberto La Parola, incaricato di
corrompere il trader per scagionare la banca da ogni coinvolgimento, e la
guardia carceraria Italo Capone, che cerca di soggiogare, anche fisicamente, Eros,
forte del potere conquistatosi nell’istituto. Come a dire: due forme
differenti, ma ugualmente minacciose, di prepotenza.
Il contatto tra i diversi soggetti, separati in apparenza da
un’incolmabile distanza e in realtà vicini nella solitudine, potrebbe dar luogo
a un esito retorico, superficialmente condotto su una superficie ironica, se
non fosse per la scrittura attentissima dei due attori e autori, in cui le
battute possiedono un’intensità aggressiva, che sa comprimere ed espandere la
gamma dinamica, e in cui i dialoghi sembrano emergere da un rumore di fondo
alienante, carico di detriti sonori: le dediche radiofoniche ai detenuti che
occupano le transizioni tra le scene, l’hip-hop brusco e maturo dei napoletani
Co’sang, gli echi e i ritmi elettronici di Climnoizer, grondanti sulle voci
come a volerle spegnere.
C’è in effetti, oltre alla recitazione accentata e profonda
(che schiva il rischio di far scivolare i personaggi nello stereotipo, penetrandone
invece la disperata vitalità), una qualità drammaturgica e scenica espressa con
artifici teatrali genuini. Come se fosse enunciato da una caustica voce fuori
campo, il “messaggio” che traspare contiene in sé il suo contrario, vuole
negarsi mentre si afferma, vuole darsi come certezza e al contempo contraddire
ogni evidenza.
Per il resto, non c’è bisogno di sottolineare l’attualità
del tema, in un periodo in cui tutti possono constatare quanto la società
globale sia immiserita dai traffici di pochi. Forse è meno scontato individuare
uno dei possibili significati latenti dello spettacolo, quello che Hannah
Arendt definì in maniera insuperabile “la banalità del male”: ovvero
l’arrendersi di certe persone e certe situazioni agli sviluppi spietati intrecciati
dalla Storia, dal Potere, dal Caso.
Un’ora abbondante di spettacolo, visto martedì 25 ottobre
nella sala del Cinemateatro Lux.
CRACK MACHINE – Il denaro non esiste
di e con Paolo Mazzarelli e Lino Musella
scene Elisabetta
Salvatori
musiche Climnoizer – Co’sang
musiche Climnoizer – Co’sang
da Pisanotizie.it, 25 ottobre 2011