21 gennaio 2012

Beati siano i soldi, i beneamati soldi



Il denaro è potere, secondo un’equivalenza unanimemente accettata. Ma può anche essere l’appagamento di quella che la scienza psicologica chiama “ossessione di accumulo”. Nella commedia di Molière “riscoperta” dal Teatro delle Albe (e riportata in un atto unico), il denaro è lo scopo di una mania asfissiante, l’oggetto del desiderio, per niente oscuro, di un vecchio possidente, Arpagone, e dei suoi familiari, congiunti qui non solo dal grado di parentela, ma dall’esser vittime di un interesse mortificato, coabitanti di una famiglia-bunker senza affetti né intimità. Sicché i figli, Elisa e Cleante, guardando il padre che conta e riconta il proprio denaro, organizza matrimoni di convenienza e nega loro l’aiuto economico di cui avrebbero bisogno, covano desideri repressi che sfogano soltanto in ossessive ripetizioni, una sorta di coazione a mentire. Quando un servo deruba Arpagone dell’amata cassetta con i soldi, l’azione si paralizza, sembra non avere più sbocco, e solo l’entrata in scena di un deus ex machina (è il ruolo di Anselmo, che il regista, Marco Martinelli, riserva per sé) è in grado di “officiare” il coup de théâtre che ridà corda alla vicenda, con tanto di risolutiva agnizione e sbrigativo lieto fine.
L’arredamento è a dir poco disadorno, esteriorizzando una patologica tendenza all’austerità: pochi mobili dentro una casa in miniatura, chiusa sui lati da pesanti tendaggi come fosse un set cinematografico, allestito a vista dagli attori. Gli stessi attori contribuiscono anche al disegno luci, manovrando i riflettori per creare fasci luminosi inquisitori, spietati nel rivelare il modo in cui la cattività si trasforma in cattiveria, passando per il più pernicioso dei peccati capitali.
Di fatto, il lavoro sulla parte audiovisiva è assolutamente determinante: come le luci, anche i costumi, dalle tinte cupe e claustrali, e i suoni, pensati in termini di simmetrie, contrasti e reiterazioni come la punteggiatura di un film muto, rendono l’oggetto scenico un contenitore impeccabile.

Quanto al testo, la traduzione di Cesare Garboli usata dalle Albe è straordinaria e poetica, e non tradisce i mezzi toni e le sfumature dell’umorismo tagliente di Molière. Ma proprio l’affidarsi a un testo così fedele nuoce al risultato complessivo: nonostante la schiettezza della loquela, il linguaggio di Molière non ci appartiene, non è odierno, non è verosimile, pertanto l’opera raffinata di attualizzazione compiuta dalla compagnia si ferma al piano estetico-figurativo e non incide su quello verbale. Succede così che l’ardita manipolazione, che avremmo detto rinvigorente e provocatoria, perda forza, facendosi meno convincente. Chi ha fede nella possibilità di rinascere dei classici (sentimento che alle Albe non è mai mancato) deve fare in modo che questi imparino la lingua del mondo che li ospita; che un servo seicentesco indossi piercing e tuta sbrindellata è una trovata sorprendente, ma se pronuncia frasi come “prendo congedo”, non posso fare a meno di aggrottare la fronte per la dissonanza stridente.
Non meno sorprendente è che Arpagone sia interpretato da una donna (la stregonesca Ermanna Montanari), sia vestito come un mercante cinese, e manifesti la sua smaniosa taccagneria riversando suoni gutturali in un microfono, che arriva a far somigliare la sua voce a quella del mostruoso Gollum della saga del Signore degli anelli. Peraltro, in uno spettacolo che azzera la componente farsesca e fa delle parole macigni nel silenzio, l’integrazione di attori storici (come Luigi Dadina, nei panni dell’ambiguo e ironico tuttofare Mastro Giacomo) e giovani interpreti formatisi nei laboratori risulta imperfetta proprio per l’immaturità dei secondi dal punto di vista vocale (ma è interessante l’esito raggiunto da Alessandro Argnani nel figurare la piaggeria di Valerio, pretendente di Elisa).

Un’ora e quaranta minuti di spettacolo, ben ricompensato dal pubblico del Teatro Verdi, sabato 21 gennaio.


L’avaro
di Molière
traduzione Cesare Garboli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
con Loredana Antonelli, Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Laura Dondoli, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Alice Protto, Massimiliano Rassu, Laura Redaelli
spazio Edoardo Sanchi
costumi Paola Giorgi
musiche originali Davide Sacco
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola

da Pisanotizie.it, 23 gennaio 2012

8 gennaio 2012

Chi ha paura di Arturo Ui?



Scritto dopo l’instaurazione della dittatura nazista ma prima delle atrocità dell’olocausto, La resistibile ascesa di Arturo Ui, affermò Brecht, “è un tentativo di spiegare l’ascesa di Hitler al mondo capitalista, trasferendola in un ambiente che gli è familiare”. Ebbene, come si costruisce un consenso di massa? Scegli una comunità sufficientemente indebolita da affidarsi al primo che capita con atteggiamenti da leader, circondati di tirapiedi e aguzzini dal grilletto facile, impara l’arte di parlare in pubblico, elimina i tuoi avversari, seduci o minaccia tutti gli altri. Che si tratti di Al Capone, di Adolf Hitler o dell’ottuso boss dei cavolfiori di Chicago Arturo Ui c’è poca differenza, insinua Brecht. La metafora regge fino a un certo punto, ma fa comunque riflettere.
Caricatura o alter-ego del Führer, con quel nome, Arturo, che adombra la mala italo-americana (tutti i suoi scagnozzi portano cognomi che sono storpiature di quelli dei gerarchi nazisti), il protagonista con il suo stolido arrivismo satireggia la megalomania di chi si vuole sul gradino più alto nella gerarchia del potere.

L’incontenibile tendenza di Orsini all’ammicco metateatrale e mattatoriale, al controtravestimento, all’autocitazione ironica, ha buon gioco in questo caso perché piega verso la sguaiata musicalità da Kabarett che attraversa l’intero spettacolo. Il quasi ottantenne primattore impregna il suo Ui di momenti lugubri e movenze caricate, che scimmiottano il guittesco portamento hitleriano, lasciando appena ricordare il lirismo di Chaplin (Il grande dittatore, di cui il testo brechtiano è parente non lontano, uscì negli stessi anni).
I talentuosi attori-cantanti-showmen che completano la compagnia, abbigliati come maschere grottesche e pacchiane che sembrano uscire da un dipinto di Dix o Grosz, sostengono la porzione più grossa dell’azione, alimentandola con sequenze baracconesche a ritmo di ballata.
Ne viene fuori una messinscena che prova a lucidare, forse con eccessivo compiacimento, la superficie opaca del testo brechtiano. L’illusione di partecipare alla lotta tra il bene e il male (naturalmente schierandosi tra i “buoni”) è una visione consolante ed eufemistica che funziona in ogni epoca. Delle vetuste sbandate ideologiche del brechtismo fa a meno la riscrittura di Longhi e del suo dramaturg Luca Micheletti (premiata nel 2011 con il premio Ubu), il cui maggior pregio sta nell’aver trattato con perspicacia e adeguato sense of humour la logica strutturale dell’opera: il suo ripudio dello sviluppo drammatico canonico a vantaggio di una costruzione “epica” (che per Brecht equivale a esibire interventi stranianti, smascherando la natura fittizia della circostanza teatrale); il suo montaggio cinematografico, si potrebbe dire televisivo (nel suo significato migliore, non si inalberino gli snob!), fatto di stacchi, intermezzi musicali e siparietti da avanspettacolo; la frizione comica tra la sordida vicenda, ambientata nei mercati ortofrutticoli, e l’enfasi declamatoria da operetta.
Sensata l’ambientazione scenica, in cui decine di cassette di verdura formano i piani dei grattacieli di Chicago; lo skyline illuminato da riflettori colorati è lo sfondo di una metropoli rutilante e aggressiva, come doveva essere la Berlino degli anni Trenta, solcata da ariette malinconiche e guizzanti songs in tono maggiore, in parte recuperati dalle musiche originali di Hans-Dieter Hosalla. 
Un’ultima considerazione, a mo’ di appello: ho letto finalmente un programma di sala che aggiunge qualcosa alla messinscena e non un fogliaccio spoglio e vaniloquente. Speriamo che diventi una buona abitudine anche nelle produzioni meno facoltose.

Due ore e mezzo di spettacolo, applaudito a lungo, visto domenica 8 gennaio al Teatro ERA di Pontedera.


La resistibile ascesa di Arturo Ui
di Bertolt Brecht
traduzione Mario Carpitella
regia Claudio Longhi
dramaturg Luca Micheletti
con Umberto Orsini, Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti, Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis
musiche originali Hans-Dieter Hosalla; fisarmonica e arrangiamenti Olimpia Greco
scene Antal Csaba
costumi Gianluca Sbicca
luci Paolo Pollo Rodighiero
produzione Teatro di Roma, Emilia Romagna Teatro Fondazione

da Pisanotizie.it, 9 gennaio 2012