30 aprile 2011

Emma Dante non perde di vista se stessa



Che si tratti di un secondo esordio, o quantomeno di una deuxième mouture, lo si può intuire dal titolo scelto, Trilogia degli occhiali. Raggruppare nuovamente una terna di spettacoli dopo aver prodotto, riunito e pubblicato con il nome di Trilogia della famiglia i primi celebratissimi lavori (mPalermu, Vita Mia e Carnezzeria) significa rilanciare una ricerca che è a un tempo tematica ed espressiva, e che mira a riottenere la profusione di larghissimi consensi e rumorosi dissensi da cui è cominciata la fortuna di Emma Dante.
I due capitoli andati in scena sabato 30 aprile alla Cittàdelteatro di Cascina (Acquasanta e Il castello della Zisa), in prima Toscana, e quello (Ballarini), separato geograficamente, vistosi a Buti mercoledì 27, riavviano un’impresa drammaturgica, registica e performativa da cui è lecito attendersi molto.
Nondimeno, le invarianti stilistiche che legano questi spettacoli ai precedenti sono molte, prima fra tutte il gusto per l’eccedenza. Principalmente si tratta di un “eccesso di velocità”, che spinge i personaggi della Dante a dimenarsi attraverso movimenti tarantolati o sovreccitati, pronunce accelerate, flessioni ed inflessioni acrobatiche, ribellioni grottesche o patologiche; vivendo la vita come una lunga degenza, imprigionata nella malattia, nella perversione o nell’anormalità. 

Così è per il mozzo di Acquasanta, ‘O Spicchiato (così soprannominato per via del riflesso degli indispensabili occhiali) a tal punto innamorato del mare e della sua nave da sopportare le umilianti vessazioni, fisiche e morali, che i compagni di navigazione gli infliggono prima di licenziarlo, per poi imbretellarsi al sartiame di un’imbarcazione immaginaria e ricevere i marosi come baci di un’amante di cui ingoiare la schiuma.
Così è anche per il ragazzo ritardato di Il castello della Zisa, che una coppia di suore – solerti fino alla frenesia, litigiose e bisbiglianti – risveglia dall’iniziale torpore catatonico, riattivando contrazioni spastiche e deliri maniacali caricati a molla.
Ma si può parlare anche di un’eccedenza di segni visivi, che si concatenano ritmicamente, e da cui la storia stessa sembra trarre il suo sviluppo. La barca sulla quale ‘O Spicchiato si rifugia ostinatamente somiglia a una “macchina inutile”, di cui il mozzo è lo spaventapasseri o la marionetta, carica di oggetti-feticcio: gli occhiali inforcati per forza, le ancore usate come contrappesi, un nugolo di timer appesi sulla testa, e i due cappelli che servono a Carmine Maringola (interprete fisicamente ineccepibile, accattivante nell’emissione di un dialetto napoletano stretto e spontaneo, morbido e malfermo) per dar voce al capitano e al resto dell’equipaggio.
Analogamente le bambole carillon e i giochi colorati che occupano la scena del Castello direzionano e avvolgono l’azione in una temporalità senza delimitazioni precise, fungendo da prolungamento del passato e stimolo terapeutico nel presente. E lo stesso si potrebbe dire degli oggetti che consentono ai due anziani protagonisti di Ballarini di ripercorrere e coreografare, à rebours, gli intimi ricordi della vita trascorsa insieme.
Ed ancora, tra gli elementi ritornanti in questa Trilogia, l’ossessione “estetica” per le secrezioni corporee – vomito, saliva, catarro – la città di Palermo (i quartieri Acquasanta, la Zisa e Ballarò citati nei titoli), e l’efficacia del training fisico, che emerge anche in questo caso come cifra dominante. Solo il pieno governo del proprio corpo permette infatti agli attori-personaggi di bilanciare l’ingovernabilità delle proprie reazioni e dei propri meccanismi di difesa. Sicché pure il vizio (o il pregio, decida lo spettatore) del teatro della Dante resta lo stesso: usare queste creature deboli e inarrestabili come fenomeni di marginalità esistenziale, sfruttando il potere dell’alterità di intenerire e disturbare al tempo stesso.

Favorevolmente accolto il monologo di tre quarti d’ora di Acquasanta, seguito dai venti minuti di Il castello della Zisa, il cui spiazzante finale (sappiamo che lo spettacolo è stato tagliato dall’autrice rispetto alle prime repliche, in cerca di una “sospensione” a dire il vero eccessiva) ha senz’altro disorientato il pubblico.


Acquasanta
con Carmine Maringola

Il Castello della Zisa
con Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier, Onofrio Zummo

regia Emma Dante
scene Emma Dante, Carmine Maringola
costumi Emma Dante
disegno luci Cristina Fresia
produzione Teatro Stabile di Napoli, Compagnia Sud Costa Occidentale, Crt Centro di Ricerca per il Teatro di Milano, con la collaborazione del Théâtre du Rond Point – Parigi

da Pisanotizie.it, 2 maggio 2011


10 aprile 2011

Nel gelo di una notte di Russia


Se due registi come Klaus Gruber e Cesare Lievi (il primo nel 1984, il secondo nel 2000) hanno desiderato lavorare su questo breve e poco conosciuto studio drammatico di Anton Cechov (uno degli otto atti unici, o vaudevilles, come amava chiamarli l’autore, scritti tra il 1884 e il 1892) un motivo ci sarà. La ragione si nasconde probabilmente nelle pieghe della sua secchezza realistica, nella lugubre e spossata continuità dei suoi dialoghi, nella povertà scura eppure piena di dignità degli intabarrati viaggiatori di passaggio. Un doloroso e fatale messaggio rintocca nella sperduta taverna di Tichon, in cui si respira, come appunta il regista nelle sue note, «il fallimento, l’angoscia dell’esistere, il miraggio di mondi irraggiungibili».
Distanziandosi dalla versione onirica dei due precedenti allestimenti, immersi in claustrofobici impianti scenografici, Marconcini svuota interamente la platea e vi arreda la misera locanda, rifugio di reietti e pellegrini: due tavolacce come branda, qualche sedia, un portaceri e un disadorno bancone; nella semioscurità il pubblico, come fosse formato da muti e indiscreti avventori, siede ai margini dello spazio centrale.

Da fuori, ricostruiti con cura, tuoni e scrosci minacciosi annunciano lo scatenarsi di un nubifragio, l’approssimarsi del gelo sulla strada maestra. Di tutti i viandanti, che si presentano come tante icone vagolanti nella prima sulfurea scena, e di cui pochi lampeggianti aneddoti non restituiscono che un vago profilo, solo uno lascia riaffiorare il proprio straziante passato. È un ricco possidente, rovinatosi dopo il tradimento della moglie, alcolizzato e ridotto a implorare l’oste per un bicchiere di vodka. Il suo incubo personale, raccontato da un suo contadino (interpretato da Giovanna Daddi en travesti), risveglierà la solidarietà pietosa dell’avido taverniere, del ciarliero operaio e perfino dell’arrogante e bestiale bifolco, gli stessi che poco prima lo avevano sprezzantemente umiliato.
È a questo punto che Cechov, come nei suoi migliori racconti, fa incontrare devozione e sfacelo, compassione e violenza. Quando la moglie dell’uomo, quasi come un allucinazione, si fermerà nella bettola per via di un incidente alla carrozza, l’ubriaco e delirante marito non avrà forza per trattenerla, mentre il biasimo e la rabbia degli altri avventori la costringeranno a fuggire.
Seppure discontinua, la recitazione della nutrita compagnia, attraverso una dizione non già naturale e sommessa come sarebbe lecito attendersi, bensì sforzata, faticosa e sopratono, fa emergere quella che Ripellino chiamò la “malinconia uguagliatrice” del teatro cechoviano; quel teatro che dell’anima russa ha saputo cogliere come nessun’altro la propensione all’eccesso e alla dissipazione.

Poco più di un’ora di spettacolo, visto domenica 10 aprile al Teatro Francesco di Bartolo di Buti.


Sulla strada maestra
di Anton Cechov
regia Dario Marconcini
con Mario Matteoli, Catia Leporini, Annalisa Lari, Francesco Cortoni, Claudio Alfaroli, Paolo Castellano, Gianni Buscarini, Giovanna Daddi, Chiara Argelli
scene e costumi Leontina Collaceto
allestimento e luci Riccardo Gargiulo, Valeria Foti
produzione Teatro di Buti

da Pisanotizie.it, 11 aprile 2011

2 aprile 2011

L'amore sottovoce in via Toledo


Napoli, Quartieri Spagnoli, una griglia di strade e vicoli ammatassati, di cantonate e chiesette, di caos e musica. Musica radiofonica, voce di città o colonna sonora; musica che penetra in uno dei tanti bordelli e lo sommuove, raccontando di un desiderio di libertà ed evasione.
Non è impropria la definizione di recital scelta da Moscato per questa Toledo Suite, in cui si alterna una collezione di versi e canzoni, intimamente pronunciata da una piccola e validissima orchestra da camera (qui peraltro in una formazione ancor più ridotta rispetto ad altre apparizioni).
Gli amanti di Moscato vi leggeranno un altro capitolo di una carriera fatta di percorrenze e intermittenze, di inconfondibili tracciati autobiografici in un tessuto di riferimenti alla cultura “alta”. Chi non è tra i conoscitori dell’artista napoletano farà invece più fatica a estrarne una narrazione, anche per via della distanza che il pur morbido dialetto usato da Moscato inevitabilmente scava. Non riconoscerà pertanto, tra i versi declamati tra una canzone e l’altra, le parole di Luparella, e prima ancora di Tiempe sciupate, due lavori che risalgono a più di vent’anni fa.
Sia gli uni che gli altri potranno tuttavia lasciarsi affascinare dalla varietà delle canzoni e dai raffinati arrangiamenti di Pasquale Scialò, tra i maggiori musicologi e specialisti della musica napoletana: brani originali che una medesima tonalità o ispirazione tiene insieme ad altri – vecchi standard (Weill e Viviani, Armando Gill e Nino Taranto) ed evergreen del patrimonio partenopeo (come Anema e core o Scalinatella) – proprio come i movimenti di una suite.
Il rapporto di Moscato con il canto possiede del resto qualcosa di carsico, talora emergente e capace di dare origine a spettacoli come Embargos o Cantà; in altri casi sottotraccia, pur rimanendo contrassegno della sua pratica scenica e, per così dire, indicazione geografica tipica. È pur vero che le corde vocali di Moscato sono ormai meno flessuose delle sue mani, ancora agili e musicali nell’accompagnare il suono della chitarra e del violino.

Se la struttura formale è quella di una suite, qualcosa di cinematografico percorre lo spettacolo, a cominciare dal titolo proiettato su un velo che separa il palco dalla platea, come all’inizio di un film. Lo stesso velo su cui si fermeranno le proiezioni dei disegni di Mimmo Paladino, attraversandolo per terminare poi, duplicandosi, sul fondale nero. Disegni in verità assai deboli e superflui, nient’altro che schizzi frettolosi di un grafismo elementare. Assai più evocativa sarebbe stata una scelta di inserti video, found footage o filmati d’epoca, che avesse restituito visivamente la musicalità dei Quartieri Spagnoli, la disperata vitalità dei bassifondi; che avesse cioè indicizzato la topografia urbana e spirituale cantata da Moscato. Ma Toledo suite è uno spettacolo di transizioni e dissolvenze più che di sintassi; di sussurri, frammenti malinconici e vedute interrotte più che di consistenze; di galleggiamenti e inseguimenti più che di corpi in azione.

Circa un’ora di recital, applaudito con qualche tentennamento, al Teatro Rossini di Pontasserchio, sabato 2 aprile.


Toledo Suite
recital tra musica e teatro
testi e regia Enzo Moscato
chansonnier Enzo Moscato
musicisti Claudio Romano (chitarra), Paolo Sasso (violino)
immagini sceniche Mimmo Paladino
elaborazioni e direzione musicale Pasquale Scialò
luci Cesare Accetta
costumi Tata Barbalato
produzione Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Fondazione Tramontano Arte/Nuova Opera Festival

da Pisanotizie.it, 4 aprile 2011