31 marzo 2012

César Brie e l'affare Karamazov



Lo sforzo compiuto da César Brie per comprimere in due ore l’ultimo romanzo di Dostojevskij, una delle architetture più complesse della letteratura europea (venti pagine di romanzo contro una di copione, come calcolato dal regista), è lo stesso richiesto al cronista che voglia riportare in un breve articolo la densità dello spettacolo. Oltre al lavoro di essiccazione, non così faticoso se si pensa a quanto è dilatata la scrittura di Dostojevskij (opulenza giustificata dalla tipologia del romanzo a puntate, la forma in cui nacque l’opera), è notevole la capacità di manovrare lo slittamento di registri, motivo centrale della poetica di Brie: da quello comico al lirico, dal tragico al farsesco. È la linea guida di un allestimento che non si lascia aggredire dal repertorio critico sull’opera (ovvero dalle monumentali analisi letterarie, sociali, teologiche, politiche e psicologiche che si sono succedute), applicando invece un criterio generativo emotivo, per così dire. Brie lascia evaporare le sofisticate estensioni narrative e filosofiche nel bollore vivace dei dialoghi (sacrificando ad esempio il celebre monologo del Grande Inquisitore); sbiadisce le tonalità aspre e ferrose dei personaggi, stemperandole in un’atmosfera calda, spiritosa, didattica e musicale, costantemente percorsa dal tempo sedativo di sonatine e delicate ballate suonate dal vivo. Con l’espediente “epico” di consegnare agli stessi personaggi il riassunto degli avvenimenti, l’azione si svolge in parallelo al suo racconto, come se ciascun attore, oltre che a recitare, fosse anche impegnato a leggere il romanzo. 

Pur sintetizzando al massimo gli incisi, i periodi e gli inserti che sostanziano la trama nel suo andamento polifonico (“la pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte”, come lo definì Michail Bachtin nel suo saggio su Dostoevskij), il regista non ha fretta di mostrare l’evoluzione (la deriva) dei fratelli, combattuti tra disprezzo e pietà filiale: del passionale Dmitrij, del cerebrale e sarcastico Ivan, del mite e incorrotto Aleksej e dell’illegittimo Smerdjakov, figura quasi demoniaca, che infine sarà l’esecutore materiale del parricidio ai danni del dissoluto Fëdor. Attraverso queste incarnazioni letterarie si scontrano sentimenti archetipici, in una lotta di pulsioni e forze che si sviluppano nel tempo e nel tempo portano i protagonisti alla salvezza o all’annientamento.
Non c’è sipario, non c’è confine tra il dentro e il fuori: gli attori (tutti leggeri, distesi, mai caricati) sono sempre in scena; quando non sono nel vivo siedono sulle panche ai lati, cambiandosi oppure osservando ciò che accade nello spazio centrale: una sorta di cerchio magico, individuato da un tappeto dipinto, che Brie vuole al di sotto della platea (la ripida gradinata del Teatro Era consente in effetti alla compagnia di recitare a ridosso della prima fila), affinché siano più leggibili certe “prospettive” dall’alto, in cui l’occhio può inquadrare il disegno formato dagli arredi scenici a terra. Una forma di simbolismo stenografico è anche nelle grucce appese sul fondo come croci, occupate dagli abiti di scena, e nei pupazzi dalle sembianze di fanciulli, metafora dell’inermità e del dolore infantile. Gli stessi attori, del resto, assumono in più occasioni (come durante il processo a Dmitrij, condannato per l’omicidio al posto del suicida Smerdjakov) il portamento di burattini: nulla di perturbante, semmai si può parlare di deragliamento favolistico. Il tono patetico che prevale nel finale, con la commemorazione del generoso e innocente Iljusa (il figlio di un vecchio capitano che Dmitrij ha offeso), morto nell’indigenza, se da una parte gratifica la spiritualità profonda dell’ultimo Dostojevskij, dall’altra è un’esortazione fin troppo esplicita alle ghiandole lacrimali dello spettatore.

Due ore di spettacolo, visto sabato 31 marzo al Teatro Era di Pontedera.


Karamazov
liberamente tratto da I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij
adattamento e regia César Brie
con César Brie, Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Vavassori
musiche originali Pablo Brie
costumi Mia Fabbri
luci Paolo Pollo Rodighiero
pupazzi bambini Tiziano Fario
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione

da Pisanotizie.it, 2 aprile 2012

29 marzo 2012

Paolo Rossi nella casa dei misteri



Che si tratti di un omaggio, più che di una ripresa o di un calco, è chiaro fin dal titolo.
A più di quarant’anni dalla sua prima scrittura per la scena, presentata come giullarata popolare, Mistero buffo è tra le commedie di Fo più contese dai suoi eredi diretti, chi più titolato chi meno. Non stupisce, trattandosi di un’opera malleabile, perpetuamente in divenire, un robusto contenitore in cui inscatolare materiali eterogenei.
Forte della sua esperienza e sostenuto da una solida direzione registica, Paolo Rossi decide scaltramente di evitare rischiosi confronti; prendendo alla lettera le parole del premio Nobel, «rubare in teatro è cosa buona, copiare è da coglioni», si appropria dunque del contenitore, come di un appartamento ammobiliato, e vi si trasferisce con i propri oggetti personali, vale a dire con la propria fisicità (meno elastica ed atletica dell’originale ma più nervosa e caracollante), con la propria voce (dalla grana grossa, e più costipata del solito per via di un’influenza), e con il proprio pubblico, abituato alla sua fanciullesca e impunita sfacciataggine. A trasloco completato, se la struttura di base non ne esce snaturata, la segnatura riconoscibile del comico di Monfalcone è pienamente evidente.
Come Fo, Rossi accoglie i visitatori in un’anticamera, li mette a proprio agio con un lungo prologo satireggiante (che agisce come una captatio benevolantiae), e poi li accompagna, stanza per stanza, a vedere come ha completato l’arredo. Buona parte del pubblico sa cosa aspettarsi, spera di trovare i “misteri” che raccontava Fo, narrazioni apocrife o prestiti dall’epica popolare come La nascita del giullare; e non resta deluso da come le doti mimiche e affabulatorie di Rossi riescano a rivisitarli. Anche il grammelot, la lingua falso-vera con cui Fo impastava i suoi racconti, ne esce trasfigurato, riportato su un’accennata e comprensibile cadenza tra il lombardo e il friulano.

La novità più significativa (da cui può trarre giustificazione l’attributo pop del titolo, che sta per popolare, cioè attuale, dotato di un’ironia alla portata di tutti) consiste nella scelta di arieggiare la forma monologica inserendo nelle due ore di spettacolo momenti comico-musicali, in cui Rossi, tra canzone e canzonatura, si appoggia alla “spalla” Emanuele Dell’Aquila imbastendo un botta e risposta sul filo del nonsense (che potrebbe ricordare quelli tra Paul Shaffer e David Letterman). In effetti la dominante dello spettacolo è l’impronta decisamente cabarettistica, lo sberleffo grottesco, l’invettiva satirica che lo spettatore attende per spanciarsi dalle risate; nella seconda parte, grazie alla presenza di Lucia Vasini nei panni di un’attrice svampita e psicolabile, lo spettacolo tocca il suo apice. Dallo zenit al nadir: la stessa Vasini repentinamente si trasforma, per diventare la protagonista dell’episodio più lirico e struggente tra quelli ispirati dal testo originale, ovvero la polifonia dialogica della Passione di Cristo, in cui l’attrice, in una scena dai toni ambrati, fa risuonare le voci concitate delle pie donne ai piedi della croce insieme a quella, scura e penetrante, di Maria.

Due ore di acclamatissima performance, vista giovedì 29 marzo alla Città del Teatro di Cascina.


Il Mistero buffo nella versione pop 2.0
di e con Paolo Rossi
riduzione e adattamento Paolo Rossi e Carolina De La Calle Casanova
regia Carolina De La Calle Casanova
con la partecipazione straordinaria di Lucia Vasini
musiche composte ed eseguite dal vivo da Emanuele Dell’Aquila
produzione La Corte Ospitale
in collaborazione con Fondazione Giorgio Gaber

da Pisanotizie.it, 30 marzo 2012

16 marzo 2012

C'è di mezzo il mare



L’antefatto, ovverosia il motivo generatore dello spettacolo, è tristemente noto e raccoglie in sé tutte le storie tragiche di emigranti, clandestini e naufraghi del mare. Una popolazione di uomini, donne e bambini senza nome (ma chi non ha nome ha un numero, matematica spersonalizzazione) che dalle coste africane attraversa il Mediterraneo, in cerca di un avvenire migliore. Non è detto che faccia ritorno a casa; non è detto che giunta a destinazione trovi quanto desidera; peggio ancora, non è detto che arrivi a destinazione: “stipati nel barcone, infradiciati, mangiati da un freddo atroce, gridano e pregano, pregano e son presi a schiaffi; una Bibbia e un Corano inzuppati nell’acqua, lo stomaco che urla dalla fame: patetici”. Così li descrive il grottesco militare interpretato da un demoniaco Alessandro Renda, ingallonato come i generali fantocci di Enrico Baj, unico abitante di una misteriosa isoletta vulcanica, incaricato da un fantomatico Ministro dell’Inferno (ci vuol poco, è sottinteso, a sostituire una “f” con una “t”) di stilare il censimento delle vittime e dei dispersi in mare.
Guanti e occhiali scuri, assuefatto alla sua funzione di pallottoliere mortuario, il generale fa ordine tra i cadaveri, a ognuno un numero, per ogni cifra una storia: destini che si somigliano, racconti che si fanno eco. Nella deriva quasi psicopatica del suo contegno, egli arriva a incarnare i fantasmi che probabilmente non hanno la forza di perseguitarlo. 

La scena (pensata da Ermanna Montanari ed Enrico Isola) è un antro buio; una sorta di pietra tombale fa da piedistallo sul quale il burocrate, emergendo dall’ombra, pronuncia il suo monologo. La sua voce ha il timbro cavernoso di chi si trovi a corto d’aria; voce che diventa furiosa quando si lancia in un’invettiva contro i pesci voraci che rendono più difficile il suo compito, divorando i connotati delle vittime (forse alcune coscienze avranno sobbalzato, scorgendovi la metafora di una civiltà avida e insensibile).
Nel rievocare il dolore e la disgrazia di speranze disilluse, succede che la partitura drammaturgica proceda percuotendo sempre le stesse corde; a conti fatti, lo spessore poetico dello spettacolo deve molto all’apporto dei fratelli Mancuso (già esecutori di diverse “colonne sonore” per Emma Dante). Entrambi in scena, seduti sul fondo del palcoscenico, i due polistrumentisti siciliani impregnano il monologo del generale di sonorità primitive e meticcie: che vengano da un flauto, da un harmonium, da un liuto, o dal loro struggente e inconfondibile canto vibrato, queste portano il respiro e la memoria di genti lontane.
Pur portando il titolo di uno dei primi spettacoli della compagnia (che al tempo vedeva in scena quattro attori storici della formazione, Luigi Dadina, Ermanna Montanari, Marcella Nonni e Renato Valmori), questo testo di Martinelli trae origine da un recente viaggio a Mazara del Vallo e dal contatto con quella terra estrema di frontiera ricava la sua essenza. Nella consuetudine del lavoro teatrale delle Albe, esso ha dato vita a un ciclo laboratoriale, inserito in un progetto più ampio sul tema dell’emigrazione.

Un’ora di spettacolo, visto al Teatro Rossini di Pontasserchio, venerdì 16 marzo.


Rumore di acque
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
in scena Alessandro Renda
musiche originali eseguite dal vivo Fratelli Mancuso
spazio, luci, costumi Ermanna Montanari, Enrico Isola
direzione tecnica Enrico Isola
coproduzione Ravenna Festival, Teatro delle Albe-Ravenna Teatro,
"Circuito del Mito" della Regione Siciliana, Sensi Contemporanei col patrocinio di Teatro delle Albe opera in Ravenna Teatro

da Pisanotizie.it, 17 marzo 2012

10 marzo 2012

Il dubbio in maschera



Appartato e schivo, Danio Manfredini conduce da anni una personale ricerca intorno al tema dell’umanità segnata, quell’umanità, cioè, le cui azioni si trovano ad essere orientate forzatamente, obbligate, quando non incarcerate. Secondo un tratto comune a buona parte del teatro di ricerca, la sua attività si è sempre misurata con la necessità di un processo, prima che con l’urgenza di un prodotto finito: è quella prassi per cui, in assenza di un progetto stabilito a priori, le esperienze di lavoro si sommano, accumulandosi o respingendosi, prima di dare allo spettacolo una forma compiuta, benché provvisoria e vulnerabile. Nel caso di questo 

Amleto, tale forma peculiare di processualità si scontra per la prima volta con una drammaturgia del repertorio classico; e la tragedia shakespeariana più nota e frequentata (qui presentata a metà, fino al terzo atto cioè) può diventare archivio di individualità marchiate, se, come scrive Manfredini, “attraverso il principe Amleto, sconvolto dall’assassinio di suo padre, si delinea sempre di più un mosaico esistenziale composto dalle lacerazioni che passano fra coscienza e azione, vita e morte, soprusi e giustizia, desideri e destino”.
Nel raffigurare gli eventi che conducono Amleto a prendere coscienza della necessità di vendicare l’assassinio del padre, un procedimento di trasfigurazione (o sublimazione?) porta la scena, buia e disadorna, ad essere lambita da una pluralità di tracce differenti: dal teatro giapponese, rievocato nella purezza del suo simbolismo metonimico, alla tradizione del mimo francese. Sono echi assorbiti tuttavia in un disegno prospettico che ha il suo punto di fuga nel peso delle parole: Manfredini unisce alla ricerca estetico-figurativa una riflessione sull’“agibilità” del linguaggio, questione troppo spesso risolta nella direzione di un irraggiungibile rispetto filologico o, altre volte, in nome di un ancor più pretenziosa richiesta di libertà. La nuova e ambiziosa traduzione dal testo originale inglese (messa a punto da Amerigo Nutolo, anche attore di questa compagnia di soli uomini) nasce senza dubbio dalla volontà di misurarsi in prima persona con una scrittura concepita per la scena, con i suoi pieni e vuoti, le sue leggerezze e le sue pietre miliari, ma diventa poi efficacissimo scavo nella miniera di significati latenti dell’opera.
I ricami languidi di una viola decorano ogni azione, come frammenti di un lungo requiem. Altri segni luttuosi incidono la materia scenica dello spettacolo: gli abiti pesanti reprimono i movimenti; le maschere, bianche, neutre e perturbanti (quasi una costante del teatro di Manfredini) smorzano l’emissione vocale degli attori. La tragedia ha il respiro corto delle marionette ribelli che la vivono, smaniose di liberarsi dai fili che le sorvegliano.

L’incauto sovrapporsi di eventi teatrali nel fine settimana pisano ha senz’altro nuociuto all’affluenza del pubblico, peraltro indeciso nel concedere il meritato applauso.
Un’ora di spettacolo, visto sabato 10 marzo alla Città del Teatro di Cascina.


Amleto Parte prima
di William Shakespeare
traduzione Amerigo Nutolo, Danio Manfredini
regia Danio Manfredini
aiuto alla regia Vincenzo Del Prete
con Guido Burzio, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Angelo Laurino, Danio Manfredini, Amerigo Nutolo, Giuseppe Semeraro, Giovanni Ricciardi
adattamenti ed esecuzioni musicali Giovanni Ricciardi
luci Luigi Biondi
costumi Enzo Pirozzi, Irene Di Caprio
produzione Danio Manfredini e La Corte Ospitale
coproduzione Theatre du Bois de L’Aune (BLA) – Aix en Provence (France)
con il sostegno di Espace Malraux, Scène nationale de Chambéry et dela Savoie – CARTA BIANCA (programme communautaire Objectif 3, Coopération territoriale européenne 2007 – 2013 France – Italie “Alcotra”) e Emilia Romagna Teatro Fondazione

da Pisanotizie.it, 12 marzo 2012

2 marzo 2012

Siamo ancora uomini?



Un tema: complesso, irrisolto, provocatorio; un modo per affrontarlo: accumulo, elencazione e concatenazione di associazioni libere, sintagmi verbali, espressioni idiomatiche. Questo il modus operandi adottato da Babilonia Teatri (Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, fondatori della compagnia) negli spettacoli sin qui prodotti. Modalità che trae origine dalla nostra abitudine alla percezione frazionata e sconnessa della realtà, ma che, si deve ammettere, è anche procedimento di gran lunga più facile rispetto a una scrittura drammaturgica articolata. Nel caso di The end l’argomento in questione è il suicidio, il divorzio volontario dalla vita, l’ineffabile ribellione alle sue leggi. Ma più correttamente non si parla del disprezzo dell’esistenza, quanto del rifiuto dell’agonia e dell’invecchiamento, se questo porta alla decadenza fisica, all’accanimento terapeutico o all’inseguimento di una giovinezza a tutti i costi.
Uno scampanio e si comincia: quattro pezzi, come quattro round di un match senza combattimento, in cui Valeria Raimondi, cranio rasato a zero e abito corto di lamé, a colpi di versi martellanti denuncia il materialismo, il consumismo, la spettacolarizzazione di sé e la paura della morte che accomuna tutti.

Dal momento della sua anteprima, The end ha subito, come accade di frequente, un processo di essiccamento che ne ha fatto uno spettacolo più breve (meno di un’ora la durata) e sintetico, contando su una durezza verbale di grado superiore, sulla materialità delle parole, talora screziate di forme dialettali. Un esempio: “Non mi vedrete con le mutande piene de merda / nuotare nel me stesso pisso / non mi farò lavare da una troia che non sa la mia lingua”. Pochi inserti sonori (tra cui Ciao amore ciao del suicida Tenco) spezzano i monologhi, lasciando meditare sui contenuti. Come gli scatti a raffica di un moderno apparecchio fotografico, i brani aggrediscono la platea, denudando le sue abitudini e responsabilità; non tutti gli scatti colpiscono nel segno, non tutti hanno la stessa efficacia. Nel pronunciare queste filastrocche crudeli, senza ironia né variazioni di ritmo, l’attrice compone dietro di sé una scenografia macabra: un Cristo Crocefisso issato con una carrucola, ai lati del quale, al posto dei ladroni, oscillano le teste mozzate di un bue e di un asino. A completare il grottesco presepe la cometa di cartone che Valeria solleva alla fine dello spettacolo, prima di rientrare con il figlio da poco nato in braccio, mentre si odono i versi di Jim Morrison, “all the children are insane”, nella canzone che dà il titolo allo spettacolo.

In una serata che unisce due compagnie provenienti dal pluriventennale premio Scenario, il secondo testo rappresentato è Infactory di Matteo Latino, testo vincitore dell’ultima edizione. Alla base del testo, interpretato dallo stesso Latino insieme con Fortunato Leccese, c’è un’equivalenza metaforica tra la condizione della gioventù di oggi e quella di bestie da allevamento condannate alla macellazione. L’uso di un linguaggio sintetico e primitivo, per vivere e raccontare in prima persona l’esperienza di due vitelli, è la cifra più interessante di uno spettacolo senz’altro rivedibile. Luci al neon, graffiti spruzzati su una parete di cellophan, street dance, magliette parlanti, muscolose sonorità techno, sono gli elementi su cui atterra l’attenzione dello spettatore, i punti da congiungere per ricomporre il disegno scenico.

La platea elargisce applausi convinti allo spettacolo di Babilonia Teatri, più tiepidi per quello di Matteo Latino, venerdì 2 marzo al Teatro Rossini di Pontasserchio.


The End
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
collaborazione artistica Vincenzo Todesco
con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Luca Scotton
scene Gianni Volpe, Luca Scotton
luci e audio Luca Scotton
costumi Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
grafiche Franciu
produzione Babilonia Teatri/CRT Centro di Ricerca per il Teatro
in collaborazione con Operaestate Festival Veneto e Santarcangelo 40
e con il sostegno di Viva Opera CIrcus

Infactory
di Matteo Latino
con Matteo Latino e Fortunato Leccese
produzione Teatro Stalla

da Pisanotizie.it, 3 marzo 2012