Non è possibile nascondere un certo disappunto per la
prassi, a cui il panorama teatrale contemporaneo ci ha ormai abituato, di sfruttare
un nome o un titolo celebre della letteratura drammatica (e non), che si vuole
ispiratore della messinscena, per poi disattenderne completamente il contenuto.
Avviene così che questa Cerimonia –
scritta, diretta e interpretata da Lorenzo Gleijeses – non conservi che una vaga
traccia del testo di Fernando Arrabal (versatilissimo autore spagnolo sempre
alle soglie dell’avanguardia) menzionato nelle note di regia, Cerimonia per un negro assassinato, un
sostantivo nel titolo e poco più (naturalmente, c’è più di una ragione a
spiegare tale abitudine, ma è fuori luogo discuterne qui).
Detto questo, lo spettacolo di Gleijeses è, a parere di chi
scrive, una delle cose più interessanti viste nel corso di questa stagione, nel
suo avviare coraggiosamente (perfino sfacciatamente) numerose direzioni
diverse, vanificando ogni attendibile resoconto.
Le due istanze dominanti, quella coreografica e quella
declamatoria, sopravvivono per tutta la durata dello spettacolo, facendosi
scortare da una genia di artisti-feticcio: personalità superiori e superlative
da cui lasciarsi contagiare, prelevandone, oltre a cruciali schegge biografiche
e citazioni da antologia, la disperazione, la malattia, la volontà di potenza.
Tuttavia al fascino maudit
di Artaud, Majakovskij o Ian Curtis (frontman di una delle più rappresentative
formazioni del post-punk britannico, i Joy Division) è dato respirare
unicamente all’interno di una camera chiusa, ipervisibile, percorsa da un’evidente
inclinazione lynchiana. Dal visionario regista di Mulholland Drive e Inland Empire la compagnia sembra trarre il
gusto compiaciuto per le complicazioni semiotiche, per le aritmie selvagge,
bipolari e provocatorie; propulsioni capaci di far implodere il senso attraverso
frangenti sonori assordanti e coprenti, filari di led destinati all’intermittenza
e all’accecamento, linee di danza spezzate e sincopate, che come nella predominante
aspirazione stilistica dell’hip-hop vogliono essere prima di tutto linee di
fuga.
Così il racconto dello spettacolo, a cui forse avrebbe
giovato un maggiore refrigerio (auto)ironico, può darsi soltanto in forma di flashes, momenti ascensionali che si
fanno ricordare per il notevole impatto visivo: il microfono, estensione dello
strumento vocale, impugnato, trascinato e scagliato violentemente sul palco da
Gleijeses come in una sessione di action
painting, facendosi dispositivo di crudeltà artaudiana, spreco d’energia e
disturbante frizione acustica; le scie shakespeariane e partenopee (che
arieggiano Annibale Ruccello e Concetta Barra), lasciate in scena da Anna Redi
sfoggiando look pop, trash, punk; la postazione di deejay, alla quale si
avvicendano Gleijeses e Manolo Muoio, usata come confessionale per esternare il
solipsismo dell’artista-performer; infine gli ultimi minuti dedicati a Ian
Curtis, le cui parole (i versi di Love
will tear us apart e Atmosphere) e
i cui gesti sono recitati da Gleijeses tra imitazione e decostruzione.
Cinquanta minuti di spettacolo, seguito da cauti applausi,
visto sabato 7 maggio al Teatro Rossini di Pontasserchio.
Cerimonia
regia e drammaturgia Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio
e con la partecipazione di Anna Redi
spazio scenico Roberto Crea
light design Gigi Ascione
paesaggio sonoro Lorenzo Gleijeses, Mauro Penna
area tecnica Luigi Luongo
regia e drammaturgia Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio
e con la partecipazione di Anna Redi
spazio scenico Roberto Crea
light design Gigi Ascione
paesaggio sonoro Lorenzo Gleijeses, Mauro Penna
area tecnica Luigi Luongo
da Pisanotizie.it, 9 maggio 2011