7 maggio 2011

Rito di passaggio dell'artista postmoderno



Non è possibile nascondere un certo disappunto per la prassi, a cui il panorama teatrale contemporaneo ci ha ormai abituato, di sfruttare un nome o un titolo celebre della letteratura drammatica (e non), che si vuole ispiratore della messinscena, per poi disattenderne completamente il contenuto. Avviene così che questa Cerimonia – scritta, diretta e interpretata da Lorenzo Gleijeses – non conservi che una vaga traccia del testo di Fernando Arrabal (versatilissimo autore spagnolo sempre alle soglie dell’avanguardia) menzionato nelle note di regia, Cerimonia per un negro assassinato, un sostantivo nel titolo e poco più (naturalmente, c’è più di una ragione a spiegare tale abitudine, ma è fuori luogo discuterne qui).
Detto questo, lo spettacolo di Gleijeses è, a parere di chi scrive, una delle cose più interessanti viste nel corso di questa stagione, nel suo avviare coraggiosamente (perfino sfacciatamente) numerose direzioni diverse, vanificando ogni attendibile resoconto.

Le due istanze dominanti, quella coreografica e quella declamatoria, sopravvivono per tutta la durata dello spettacolo, facendosi scortare da una genia di artisti-feticcio: personalità superiori e superlative da cui lasciarsi contagiare, prelevandone, oltre a cruciali schegge biografiche e citazioni da antologia, la disperazione, la malattia, la volontà di potenza.
Tuttavia al fascino maudit di Artaud, Majakovskij o Ian Curtis (frontman di una delle più rappresentative formazioni del post-punk britannico, i Joy Division) è dato respirare unicamente all’interno di una camera chiusa, ipervisibile, percorsa da un’evidente inclinazione lynchiana. Dal visionario regista di Mulholland Drive e Inland Empire la compagnia sembra trarre il gusto compiaciuto per le complicazioni semiotiche, per le aritmie selvagge, bipolari e provocatorie; propulsioni capaci di far implodere il senso attraverso frangenti sonori assordanti e coprenti, filari di led destinati all’intermittenza e all’accecamento, linee di danza spezzate e sincopate, che come nella predominante aspirazione stilistica dell’hip-hop vogliono essere prima di tutto linee di fuga.
Così il racconto dello spettacolo, a cui forse avrebbe giovato un maggiore refrigerio (auto)ironico, può darsi soltanto in forma di flashes, momenti ascensionali che si fanno ricordare per il notevole impatto visivo: il microfono, estensione dello strumento vocale, impugnato, trascinato e scagliato violentemente sul palco da Gleijeses come in una sessione di action painting, facendosi dispositivo di crudeltà artaudiana, spreco d’energia e disturbante frizione acustica; le scie shakespeariane e partenopee (che arieggiano Annibale Ruccello e Concetta Barra), lasciate in scena da Anna Redi sfoggiando look pop, trash, punk; la postazione di deejay, alla quale si avvicendano Gleijeses e Manolo Muoio, usata come confessionale per esternare il solipsismo dell’artista-performer; infine gli ultimi minuti dedicati a Ian Curtis, le cui parole (i versi di Love will tear us apart e Atmosphere) e i cui gesti sono recitati da Gleijeses tra imitazione e decostruzione.

Cinquanta minuti di spettacolo, seguito da cauti applausi, visto sabato 7 maggio al Teatro Rossini di Pontasserchio.


Cerimonia
regia e drammaturgia Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio
e con la partecipazione di Anna Redi
spazio scenico Roberto Crea
light design Gigi Ascione
paesaggio sonoro Lorenzo Gleijeses, Mauro Penna
area tecnica Luigi Luongo

da Pisanotizie.it, 9 maggio 2011