16 novembre 2010

Edizione straordinaria: Shakespeare in bianco e nero



“Un’edizione straordinaria”, così Massimiliano Civica introduce al pubblico che affolla il Teatro S. Andrea questo allestimento di Un sogno nella notte dell’estate; perché sicuramente questa, che è commedia di immaginazione, aria e sogno, non può non soffrire in uno spazio di ridotte dimensioni, e ha avuto senz’altro bisogno di non pochi adattamenti. Tuttavia il quadro, calato all’interno della chiesetta romanica, ha modo di sintetizzare con linearità minimalista l’idea elisabettiana di ambiente scenico, fatta di soglie anziché pareti (qui un sipario nero sul fondo, diaframma metateatrale racchiuso nella cornice di un boccascena, e due file laterali di sedie, dove gli attori trovano posto quando non sono coinvolti nella scena), di trucchi illusionistici ed elementi metonimici, di echi, sdoppiamenti, scherzi di luce e nudi simboli che avvicinano talora l’atmosfera a quella del teatro tradizionale orientale. In breve, la trama: per festeggiare le nozze di Teseo, duca d’Atene, e Ippolita, una compagnia di sei sgraziati manovali decide di offrire alla coppia una rappresentazione popolare sul tema di Piramo e Tisbe, e si reca in un bosco per le prove. Nello stesso bosco capitano anche i giovani Lisandro ed Ermia, in fuga da Atene e dal padre di lei, Egeo, che vorrebbe darla in sposa a Demetrio.
Per lavorare su un intreccio tanto ludico e sofisticato, Civica ha scelto una dozzina di giovani e validi attori, tra i quali si fa ricordare Mirko Feliziani nel doppio ruolo di Egeo/Robin, per la fluida ed evocativa meccanica del gesto e l’agile e solida presenza vocale che si presta anche ai momenti di richiesto ventriloquismo. Il regista ha deciso poi che le coppie di innamorati – scalzi, in un bianco aulico e contrastivo – diano semplicemente lettura al testo, in una moderna traduzione che rinuncia alla morbida musicalità del verso per chiarirsi in una piana e limpida sintassi. Sicché la loro vocalità sempre poggiata, a tratti spassionata e fredda come la luce che li staglia e che sembra congelare ogni manifestazione erotica e dionisiaca, fa attrito con la rozza e amatoriale dizione dell’improvvisata compagnia; al sestetto (Gli Omini, ovvero Riccardo Goretti, Francesco Rotelli, Luca Zacchini, insieme con Nicola Danesi, Alfonso Postiglione e Diego Sepe) si devono le scene di comicità triviale che si fanno aspettare nel corso dello spettacolo. Di fatto, la separazione dei mondi, marcata dalla distonia dei registri e dalle variazioni di luci e costumi, sembrerà efficace solo allo spettatore che saprà godere di un testo ritrovato e non si lascerà spazientire dall’attesa di un colpo di teatro travolgente.

Quest’ultimo li insegue, a sua volta inseguito da Elena, che lo ama. Qui Oberon, re degli elfi, aiutato dallo spirito ingannatore Robin, vuole riconquistare la regina delle fate Titania, ed intreccia così una rete di magie, incrociando nel tempo di una notte i destini e gli amori – respinti, desiderati, riconquistati – di tutti i personaggi. Dissipati gli incanti la compagnia può infine recitare la sua tragedia davanti alla felice compagnia regale, trasformandola goffamente in una farsa e guadagnandosi la benevolenza del pubblico.
Circa due ore e mezzo di spettacolo, in due tempi, convintamente applaudito al Teatro S. Andrea, martedì 16 novembre.


Un sogno nella notte dell’estate
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Elena Borgogni, Valentina Curatoli, Nicola Danesi, Oscar De Summa, Mirko Feliziani, Riccardo Goretti, Armando Iovino, Mauro Pescio, Alfonso Postiglione, Diego Sepe, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini
costumi Clotilde
oggetti di scena Paola Benvenuto
maschere Atelier Erriquez & Cavarra
tecniche del corpo Alessandra Cristiani
tecniche della voce Francesca Della Monica
supervisione tecniche di ventriloquismo Samuel Barletti
prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria / Compagnia Il Mercante

da Pisanotizie.it, 17 novembre 2010

10 novembre 2010

Questa Stanza è una prigione per maschere



Dalla platea si osserva frontalmente lo spaccato di un edificio anonimo, lieve prospettiva di sotto in su. Una finestra dà su un interno fiocamente illuminato: l’insieme somiglia sinistramente al casotto di un spettacolo di burattini. Nel minuscolo ambiente abitano una donna, Rose Hudd, e suo marito, Bert: lei, quasi reclusa, sembra che viva unicamente per difendere il possesso della stanza; lui, sospettosamente silenzioso, è costretto a uscire per un lavoro di cui non si sa niente.
La pièce si apre con un one person dialog, una di quelle “conversazioni a una voce” a cui il cosiddetto Teatro dell’Assurdo ci ha abituato: Rose parla, snocciolando con voce arrochita considerazioni banali, il marito tace. Uscito quest’ultimo, la donna riceve la visita di una giovane coppia, dall’atteggiamento poco rassicurante: sono arrivati da poco eppure sembrano conoscere bene la storia di Rose. Si mostrano interessati a un appartamento libero nel palazzo, di cui hanno sentito dire da un altro misterioso inquilino. Proprio quest’uomo, annunciato anche dal vecchio e inebetito padrone di casa, fa infine visita alla donna, riportando a galla un passato non meno misterioso, prima di essere aggredito brutalmente dal marito di ritorno a casa. 

Ma a nulla vale sintetizzare l’intreccio se non si è in grado di riportare l’ambiguità dei dialoghi, il loro rimandare ad altro con scambi di battute ellittiche, difettose, cariche di una minaccia indescrivibile che si addensa fino al brusco e apparentemente inevitabile finale. In effetti, l’atto unico La stanza contiene in sé, sia pure acerbamente, i segni e i temi della produzione migliore di Harold Pinter, quella che fa perno sulla secchezza della comunicazione per rivelare la costipazione della vita sociale e l’insensatezza dei rapporti umani. La coerente ricerca estetica condotta da Teatrino Giullare (che abbiamo già avuto modo di commentare su queste pagine) si serve di questo testo del 1957 per modellare con maggior precisione i propri codici performativi, già saggiati dai progetti su Beckett, Bernhard, Koltès. Sforzo di modellazione che riguarda soprattutto la prestazione attoriale, orientata «dall’idea di attore artificiale, di esplorazione dell’espressività tramite il limite fisico». In questa direzione, l’invenzione scenica determinante è quella delle maschere mobili in lattice, che aderiscono perfettamente al volto dell’attore (chi scrive ricorda una soluzione analoga ideata dal genio quasi dimenticato di Anton Giulio Bragaglia, che è davvero bello veder “funzionare” qui!); si tratta di una variazione per così dire ossimorica della funzione della maschera: perdendo in rigidità acquista in eloquenza, perturbante deformabilità che irrobustisce l’enigma del testo. Dietro la maschera, le voci giocano a nascondersi, fingendo d’essere dove non sono e consentendo ai due attori, Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti, di interpretare da soli i sei personaggi del dramma, qui recitato sulla base della traduzione moderna e impeccabilmente “teatrale” di Alessandra Serra.

Circa 50 minuti di spettacolo, ben accolto dalle gradinate affollatissime del Teatro S. Andrea.


La stanza
di Harold Pinter
traduzione di Alessandra Serra
interpretato, diretto e costruito da Teatrino Giullare - Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti
scene e maschere Cikuska
produzione Teatrino Giullare / CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia

da Pisanotizie.it, 11 novembre 2010

4 novembre 2010

Non sempre chi tace acconsente



Mastino è un pianista. Ha la calata fiorentina, indossa una marsina bianca da concerto. In isolamento coltiva la sua misantropia, la sua nevrotica intolleranza verso le cose e le persone: offende la mediocrità della sorella, rovinandole il matrimonio; rivive dolorosamente il conflitto con il padre, ancora non risolto; ha in odio tutte le manifestazioni deteriori della cultura e dell’arte; ma soprattutto subisce l’ascendente di Glenn Gould, il vecchio compagno di studi, l’amico e antagonista, più talentuoso, più geniale, migliore perfino nell’aver saputo rinunciare alla vita sociale.
A una festa organizzata nella sua abitazione, Mastino ascolta le conversazioni degli invitati senza dire una parola, sopporta l’ennesimo scacco sentimentale e infine dà spettacolo, esibendosi quasi in delirio su un pianoforte scordato. È l’ultimo atto, l’ultima quantità di energia dissipata, prima di far giustizia di sé, confine estremo della propria vulnerabilità.

Quella sintetizzata è la rielaborazione scenica che la compagnia Biancofango fa di uno degli ultimi romanzi di Thomas Bernhard, Il soccombente, centrato sull’amicizia e sui combattimenti psicologici che si innescano fra tre pianisti, a causa della dirompente personalità di uno di questi, il grande Glenn Gould.
Che cosa trattiene del testo di Bernhard la scrittura drammaturgica di Francesca Macrì e Andrea Trapani? naturalmente la figura del protagonista, fragile quanto intransigente, incapace di far strumento dell’invidia e della rivalità, da cui è schiacciato fino all’autodistruzione; recupera poi la tendenza compulsiva, tipica dello scrittore austriaco, a ripetere le stesse parole, variandole minimamente fino a esaurirle, fin quasi a prosciugarne il senso, che ha il suo corrispettivo qui nelle ricchissime modulazioni della voce di Andrea Trapani, nella sua partitura gestuale mobilissima, nell’uso ricorsivo di certi scatti vocali e fisici. È ben calibrato Trapani, sardonico e solenne, con il guizzo della follia, nel far vibrare un monologo a tratti impervio, carico di deviazioni polifoniche, fin quasi schizofreniche, di ironia sprezzante e urla spezzate.
Resta infine dello stile di Bernhard quel senso di continua sospensione, di volo ininterrotto e ineluttabile, che riflette la cronica incapacità di esserci, di essere nel mondo, di essere adatti alla vita. È, del resto, l’inettitudine (o in-attitudine) il tema che ha dominato la ricerca drammaturgica della compagnia Biancofango per questo spettacolo e per i due che lo hanno preceduto (In punta di piedi e La spallata, che completano una sorta di trilogia), in caccia del « ritmo di un respiro, il respiro di chi si sente sempre al di qua, di chi non riesce a trovare la propria strada eppure la desidera disperatamente».

Per poco più di un’ora, giovedì 4 novembre, nella sala purtroppo non piena del Cinema Teatro Lux.


Fragile show
drammaturgia e regia Francesca Macrì e Andrea Trapani
con Andrea Trapani
costume di scena Isabella Faggiano
disegno luci Mirco Maria Coletti

da Pisanotizie.it, 5 novembre 2010