23 dicembre 2010

Streghe nell'armadio



Il nastro del tempo si riavvolge questa volta per riproporre l’opera prima della compagnia lucchese nata dal sodalizio tra la regista Maria Grazia Cipriani e lo scenografo Graziano Gregori. Dopo 27 anni fa ritorno uno spettacolo dal sapore antico, che ha girato a lungo, facendosi apprezzare in molti paesi e forse portandone traccia, e che avvicina artigianato sapiente e linguaggio coltissimo.
A condurre la narrazione della più che nota fiaba dei fratelli Grimm (com’è strano, tuttavia, scoprire quanto abbiamo dimenticato dell’intreccio originale) una voce fuoricampo femminile, accogliente e accattivante.
A colpire fin da subito sono le preziose scelte musicali che formano la colonna sonora, sempre ritmicamente allineate con le scene della fiaba. Il sagace riutilizzo di arie d’opera e suite orchestrali (Puccini, ma anche Sibelius, Auber, Ivanov), punteggiate o incernierate da una ricca partitura di suoni e rumori con funzione diegetica, non stupisce chi conosce la compagnia e sa quanto abbia sempre investito nella costruzione di sofisticati ambienti sonori. Così sarà il coro muto della Butterfly ad accompagnare la deposizione del corpo senza vita di Biancaneve, mentre il suo ritorno e la sua unione col principe saranno salutati dalla marcia nuziale di Mendelssohn.

Un po’ boîte à surprise  un po’ Wunderkammer, la costruzione in legno che fa da scenografia, ospitando i piccoli burattini, è assai più complessa di quanto appaia a prima vista: custodisce scomparti insospettabili, specchi che dilatano gli spazi, tendaggi che si lasciano agitare da una tempesta e congegni meccanici che accelerano danze vorticose di burattini. L’unica attrice in carne e ossa è nella parte della matrigna (Elena Nenè Barini, attrice storica del Carretto): in maschera, le sue pose stregonesche sembrano rievocare le movenze allegoriche di un masque, o gli scatti di una inquietante bambola meccanica; i suoi tentativi di eliminare l’antagonista sono i momenti di massima tensione scenica e sovraeccitano il pubblico più giovane. Di fatto, la matrigna è l’unica ad uscire dall’armadio e ad agire nello spazio antistante, senza mai interrompere il contatto con quanto sta “all’interno” ed anzi facendo da terminale prospettico. Dal dentro al fuori gli oggetti infatti cambiano dimensione, ingigantendosi nelle proporzioni dei burattini (come la mela avvelenata, manipolata dalla strega in proscenio, che riappare nel teatrino rotolando fino a schiacciare Biancaneve), o miniaturizzandosi in scala per trovar posto nella scatola magica. In questo contrasto di universi, di proporzioni, di taglie, l’artificioso e l’artificiale convivono e fanno convivere mezzi scenici che pronunciano, come scrive la Cipriani, «verità della materia e finzione del corpo, elementarità della parola e potenza dei brani del melodramma». Niente a che vedere con l’insulsa piattezza ammannita dagli spettacoli per ragazzi; questo teatro, come chiedeva Sergio Tofano nel suo celebre intervento Recitare per i bambini, riesce a “comunicare il buon gusto”. Il pubblico della replica pomeridiana, diviso tra bambini e adulti, sa lasciarsi sorprendere per un’ora.
 

Biancaneve
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani,
scene e costumi Graziano Gregori
con Elena Nenè Barini
burattinai Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Jonathan Bertolai

da Pisanotizie.it, 24 dicembre 2010

16 dicembre 2010

Le Serve di scena



Fa bene rivedere spettacoli del passato. Gli ultimi affollatissimi, “squilibratissimi” decenni di spettacolo non concedono l’impalcatura di una memoria, rendono più che difficile riordinare i gradini del cosiddetto teatro di ricerca, elaborarne una progressione dinamica. Per questo essere indotti a parlare di un lavoro apparso venticinque anni prima impone una benefica calibrazione dei parametri di giudizio. Studio per le Serve, spettacolo d’esordio dei torinesi Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa (metà anni Ottanta), suscitò pareri diseguali ma nessuno di quanti ebbero modo di parlarne rimase indifferente di fronte alla volontà di costruire intorno a un testo chiuso e refrattario ad ogni divagazione registica una gabbia ancora più impenetrabile, che ne aliena i significati portandolo al solo livello di enunciato. Volontà che sarebbe poi divenuta cifra stilistica della compagnia, prassi consolidata, filo di un discorso disteso nel tempo (chi scrive ricorda uno degli ultimi spettacoli della compagnia, in cui un’operazione analoga è compiuta sul capolavoro di Beckett, L’innominabile).

Su una piattaforma circolare di legno posta dinanzi a un pannello decorato con festoni sui toni del rosso, alla luce di una lampadina sospesa, stanno i due interpreti. Maria Luisa Abate (che era già nello spettacolo originale), sempre eretta, con una passata di bianco sul volto, proferisce le battute del dialogo tra le due serve: il loro immaginario progetto di assassinare la padrona, il loro inabissarsi nella rete di perversi mascheramenti. Tuttavia, la sua straordinaria performance vocale, che lavora su variazioni timbriche, tra emissioni pastose e chiusure gutturali, decostruisce il dialogo, rendendolo una sorta di flusso di coscienza pentagrammato. La personalità patologica delle due donne, che Genet voleva dominate dalla passione per la finzione, e da questa costrette a un tragico e grottesco epilogo, non sopravvive a questa condensazione; la messinscena rinuncia ad ogni riferimento con il testo, come questo rinunciava ad ogni referenza realistica. Così Paolo Oricco, en travesti (trucco, striminzita divisa da serva e scarpe décolleté), non ha la funzione di interlocutore, bensì quella di mera presenza scenica, attributo visivo dello spettacolo: nella prima parte facendo da sponda alla traccia coreografica e vocale imbastita dalla Abate, alternando pose imbambolate a torsioni ginniche; durante il monologo finale “ingabbiando” la sua complice con fili di perle estratti dai pantaloni e agganciati alla pedana, e adornandola di una corona di mollette da bucato (uno dei segni ritornanti nel progetto iconico dei Marcido).
Lo spettacolo ri-vive così di questa lettura cerimoniale e cerimoniosa, indubbiamente destinata ai soli iniziati.

Quasi un’ora di spettacolo, applaudito con modesta convinzione, al Teatro S. Andrea, giovedì 16 dicembre.


Memoria dello studio per Le serve
Da Le Serve di Jean Genet
regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate, Paolo Oricco
scena e costumi Daniela Dal Cin

da Pisanotizie.it, 17 dicembre 2010

2 dicembre 2010

Dolce come un biscotto



Analizzando retrospettivamente la teatrografia di Marco Baliani si sarebbe tentati di escludere Frollo dal novero delle produzioni “maggiori”. L’attore piemontese, si direbbe infatti, ha fornito, anche come autore, prove più convincenti, più mature, di spessore drammaturgico più consistente (come il Kohlhaas che torna in scena oggi a San Miniato). Cionondimeno, questa “fiaba metropolitana” scritta insieme a Mario Bianchi, rispolverata circa un quindicennio dopo la sua prima apparizione, non lascia indifferenti, in virtù della sua freschezza linguistica e delle catturanti acrobazie narrative.

Se Collodi ha intagliato un fanciullo di legno e Palazzeschi ha dato fiato a un uomo di fumo, Baliani si è accontentato, per così dire, di un ragazzo di pasta frolla, nato nel laboratorio di una buffa coppia di pasticcieri. Seduto da solo, nella cubatura scura e spoglia del palcoscenico, Baliani segue nel racconto, infarcito di metafore dolciarie, le avventure di Frollo, da un nido d’aquila fino alla punta estrema del mondo, in cerca del magico verduzio, l’unico elemento capace di fermare il mostruoso e proteiforme Girmi. Infine, come il più famoso burattino, Frollo avrà in dono un corpo umano, e una vita da spendere.
Stupisce che in uno spettacolo in cui la vocalità – ricca, disinvolta, mai distante – è il codice dominante, siano i movimenti a costituire la ricchezza maggiore: le linee del corpo ridisegnano incessantemente i contorni dei personaggi cercandone, nel breve arco concesso dalla posizione fissa, i tratti più significativi, le pose caricaturali, i particolari comici. Quando questa fiaba fu pensata, intorno alla metà degli anni Novanta, non conoscevamo ancora i terreni del teatro di narrazione, terreni che molti, dopo Baliani, hanno calpestato, fin quasi a renderli sterili. E la volontà del lavoro è assai lontana dal cercare di convincere o consolare con la forza della parola o con la robustezza della trama, che è anzi leggera, aerea, priva di moralismi o doppi sensi. L’impresa dello spettacolo consiste piuttosto nell’esercizio ritmico continuo, nella tenuta saldissima del tempo teatrale, al quale si richiede la capacità di far presa su un pubblico esigente, o impaziente, per essere più chiari, come quello composto da bambini e ragazzi. Agli adulti, a cui adesso Frollo torna a rivolgersi, comunica un senso di libertà creativa e insperata originalità.

Monologo di un’ora, applaudito con convinzione, giovedì 2 dicembre al Teatro S. Andrea.


Frollo
di Marco Baliani e Mario Bianchi
con Marco Baliani

da Pisanotizie.it, 3 dicembre 2010