12 novembre 2011

Dell'amore e di altri orrori



Stefano Ricci e Gianni Forte, caso interessante nel panorama teatrale italiano: dalla TV hanno acquisito il dono di raccontare storie a platee senza volto, indifferenziate (sono autori della serie record di ascolti “I Cesaroni”, e della sit-com cult “Hot”); dal teatro di ricerca hanno appreso l’irriverenza di convocare un mostro sacro solo per umiliarlo (hanno all’attivo una manciata di riscritture iconoclaste, MetamorpHotel da Ovidio, 100% furioso da Ariosto, Troilo vs Cressida da Shakespeare, Pinter’s anatomy da Pinter, Macadamia nut brittle da Dennis Cooper, per citarne alcune). Conquiste notevoli per chi ama nuotare nel tutto esaurito, e circondarsi di uno zoccolo duro di sostenitori, pronti a lanciare peana contro lo scetticismo degli spettatori impreparati.
Si comincia con le foto di rito: come invitati a un matrimonio, gli spettatori si lasciano fotografare da due attori-sub, scatti buoni per un salotto televisivo. Il mediale fagocita il reale: è la formula chiave per osservare la contemporaneità.
Da qui in avanti, le lunghe tirate pronunciate dai cinque protagonisti hanno il carattere di fiabe al rovescio, a cui è stato estirpato il contenuto fiabesco (grimm-less) ma che cercano con insistenza impennate elegiache, attriti semantici e frizioni logiche, con sfoggio di ansiti ed emissioni impulsive. Narrativamente, la drammaturgia non sfugge al criterio dello zapping, del montaggio senza sintesi né dissolvenza, dell’addizione di sequenze. Sono storie di periferia, storie “nere” di disagio e turbamento; ma è periferico anche il loro darsi nell’economia dello spettacolo, come se guardassero a un nucleo non raccontabile. Quello che il pubblico può vedere è già in scena: i lampadari imbustati, i trolley sgargianti, le mele, una sega elettrica e una casetta delle bambole. In definitiva, un armamentario che non ha nulla di prodigioso, per vite prosaiche e senza magia. Lo sviluppo delle nostre comunità – urbane, sociali, virtuali – ha dato vita a una generazione spuria, in cui ai materiali sintetici dell’abbigliamento e allo stile da outlet – accessori di plastica, bombolette spray, calze di nylon e felpe di acetato – corrisponde l’artificialità dei sentimenti e delle parole. È ciò che sembra affermare lo spettacolo per bocca dei suoi attori, agitati da movenze accattivanti e volgari, sopraffatti da un imbarbarimento pop/kitsch. Il tenue mistero della favola rigurgita il suo contenuto rimosso: rimane un disegno iperrealista, osceno e violento, sguaiato e triviale.

Niente di trash, sia chiaro, giacché questo, come scriveva Tommaso Labranca in un volumetto consigliabile, è “l’emulazione mancata di un modello alto”; l’operazione di Ricci e Forte proviene dall’alto invece, da lì trae la sua compiaciuta aggressività.
Eppure, per lo spettatore impreparato di cui sopra, l’aggressione sensoriale e la veemenza verbale si riducono a un atto provocatorio imperfetto: le luci, emanate da un’intera parete di maxiriflettori, stenebrano la sala ma non tanto da accecare; alla musica sparata ad alto volume mancano ancora molti decibel per diventare assordante; il fumo che impregna la sala non è sufficiente a impedire il respiro; alla recitazione dei cinque giovani interpreti (alcuni ormai entrati in stabile sintonia col duo di autori) manca la maturità necessaria per trasformare un temperamento schizoide in qualcosa di sfrenato e sorprendente.
Quando alla fine gli attori, dopo essersi denudati e cosparsi di un patina d’oro, si rivestono di abiti oversize per l’ultima grottesca celebrazione, la misura è ormai colma; rimossa la patina luccicante che ricopre la performance, non resta che un gran vuoto d’originalità.

Settanta minuti di spettacolo, accolto con robusto entusiasmo dal pubblico numeroso del Cinemateatro Lux, sabato 12 novembre.


Grimmless
di Stefano Ricci e Gianni Forte
regia Stefano Ricci
con Anna Gualdo, Valentina Beotti, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori, Anna Terio
movimenti Marco Angelilli
costumi Simone Valsecchi

da Pisanotizie.it, 14 novembre 2011