Stefano Ricci e Gianni Forte, caso interessante nel panorama
teatrale italiano: dalla TV hanno acquisito il dono di raccontare storie a
platee senza volto, indifferenziate (sono autori della serie record di ascolti
“I Cesaroni”, e della sit-com cult “Hot”); dal teatro di ricerca hanno appreso
l’irriverenza di convocare un mostro sacro solo per umiliarlo (hanno all’attivo
una manciata di riscritture iconoclaste, MetamorpHotel
da Ovidio, 100% furioso da Ariosto, Troilo vs Cressida da Shakespeare, Pinter’s anatomy da Pinter, Macadamia nut brittle da Dennis Cooper, per
citarne alcune). Conquiste notevoli per chi ama nuotare nel tutto esaurito, e
circondarsi di uno zoccolo duro di sostenitori, pronti a lanciare peana contro
lo scetticismo degli spettatori impreparati.
Si comincia con le foto di rito: come invitati a un
matrimonio, gli spettatori si lasciano fotografare da due attori-sub, scatti
buoni per un salotto televisivo. Il mediale fagocita il reale: è la formula
chiave per osservare la contemporaneità.
Da qui in avanti, le lunghe tirate pronunciate dai cinque protagonisti
hanno il carattere di fiabe al rovescio, a cui è stato estirpato il contenuto
fiabesco (grimm-less) ma che cercano con insistenza impennate elegiache, attriti
semantici e frizioni logiche, con sfoggio di ansiti ed emissioni impulsive.
Narrativamente, la drammaturgia non sfugge al criterio dello zapping, del
montaggio senza sintesi né dissolvenza, dell’addizione di sequenze. Sono storie
di periferia, storie “nere” di disagio e turbamento; ma è periferico anche il
loro darsi nell’economia dello spettacolo, come se guardassero a un nucleo non
raccontabile. Quello che il pubblico può vedere è già in scena: i lampadari
imbustati, i trolley sgargianti, le mele, una sega elettrica e una casetta
delle bambole. In definitiva, un armamentario che non ha nulla di prodigioso,
per vite prosaiche e senza magia. Lo sviluppo delle nostre comunità – urbane,
sociali, virtuali – ha dato vita a una generazione spuria, in cui ai materiali
sintetici dell’abbigliamento e allo stile da outlet – accessori di plastica, bombolette
spray, calze di nylon e felpe di acetato – corrisponde l’artificialità dei
sentimenti e delle parole. È ciò che sembra affermare lo spettacolo per bocca
dei suoi attori, agitati da movenze accattivanti e volgari, sopraffatti da un
imbarbarimento pop/kitsch. Il tenue mistero della favola rigurgita il suo
contenuto rimosso: rimane un disegno iperrealista, osceno e violento, sguaiato
e triviale.
Niente di trash, sia chiaro, giacché questo, come scriveva
Tommaso Labranca in un volumetto consigliabile, è “l’emulazione mancata di un
modello alto”; l’operazione di Ricci e Forte proviene dall’alto invece, da lì
trae la sua compiaciuta aggressività.
Eppure, per lo spettatore impreparato di cui sopra, l’aggressione
sensoriale e la veemenza verbale si riducono a un atto provocatorio imperfetto:
le luci, emanate da un’intera parete di maxiriflettori, stenebrano la sala ma
non tanto da accecare; alla musica sparata ad alto volume mancano ancora molti
decibel per diventare assordante; il fumo che impregna la sala non è
sufficiente a impedire il respiro; alla recitazione dei cinque giovani interpreti
(alcuni ormai entrati in stabile sintonia col duo di autori) manca la maturità
necessaria per trasformare un temperamento schizoide in qualcosa di sfrenato e
sorprendente.
Quando alla fine gli attori, dopo essersi denudati e
cosparsi di un patina d’oro, si rivestono di abiti oversize per l’ultima
grottesca celebrazione, la misura è ormai colma; rimossa la patina luccicante
che ricopre la performance, non resta che un gran vuoto d’originalità.
Settanta minuti di spettacolo, accolto con robusto entusiasmo
dal pubblico numeroso del Cinemateatro Lux, sabato 12 novembre.
Grimmless
di Stefano Ricci e Gianni Forte
regia Stefano
Ricci
con Anna Gualdo,
Valentina Beotti, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori, Anna Terio
movimenti Marco
Angelilli
costumi Simone
Valsecchi
da Pisanotizie.it, 14 novembre 2011