28 febbraio 2012

Per un teatro fuori dalla ragione



Malattia, emarginazione, irregolarità sono i vocaboli che meglio raccontano l’operazione compiuta da Pippo Delbono in un ventennio di carriera: il suo teatro spudorato e autobiografico (non meno delle recenti incursioni cinematografiche, come attore e soprattutto come film-maker – lunedì sera il cinema Arsenale ha presentato in anteprima il suo ultimo film, Amore carne) rifiuta ostentatamente ogni struttura, e con essa la logica che ne deriva. Non ha fini propriamente estetici ma fa del rifiuto un atto estetizzante. Se la cronaca dovesse corrispondere precisamente alla forma dello spettacolo, dovrebbe registrare una serie di urti e frizioni che corrugano le superfici del fatto scenico facendone uno spazio irregolare, continuamente percorso da effetti figurativi e mimici disarmonici, in un succedersi di vertici poetici disgregati, come tanti possibili finali: momenti di abbandono sentimentale, sganasciamenti da varietà di bassa lega, numerosissime entrate e uscite, assorbite da una riuscita ambientazione che ha l’aspetto tetro e incombente di un istituto di detenzione, se non di un bunker.

Come nel precedente La Menzogna, in cui raccontava la tragedia che coinvolse alcuni operai della Thyssen Krupp di Torino, Delbono accoglie la platea scavernando dalla sua postazione dotata di microfono un resoconto di un movimentato periodo professionale, coincidente con uno spettacolo operistico progettato e abortito (di cui Dopo la battaglia conserva alcuni lacerti verdiani). Il racconto fa da volano a una sequenza di memorie addensate in monologhi informali, scene d’insieme, filmati e documentari che provano ad aggredire la platea, a coinvolgerla in un atteggiamento di protesta (come quello particolarmente doloroso sulla situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari).
Il fare ostinato di Delbono, l’urlo e il dimenamento, il corpo a corpo con cui vorrebbe sfidare le roccaforti della coscienza, ha le sue fondamenta nella ricerca insistita di uno stimolo che prenda di mira i nervi dello spettatore, eccitandone momentaneamente la parte fisica. I suoi materiali sono frammenti di un disegno mentale, segnacoli, note a margine, sogni imperfetti strappati a un dormiveglia, come le incursioni di un violino guizzante, o le tracce coreutiche disegnate da danzatrici d’eccezione, tra le quali Marigia Maggipinto, un decennio di esperienza con il Tanztheater di Pina Bausch.
Proprio il ricordo della Bausch – uno dei punti di riferimento del training di Delbono – a pochi mesi dalla sua scomparsa, così come il ritratto affettuoso, seppur carico di conflitti, della madre, e le citazioni dalle pagine amate di Kafka, Pasolini, Artaud, Alda Merini, Walt Whitman, lascia intuire l’assillo della memoria, o meglio il terrore dell’ombra, del silenzio e dell’oblio. Un terrore esorcizzato dalla musica, dal canto (tra le scelte migliori nel juke-box dello spettacolo la coreografia “in rosso” sulle note dolenti di Adio querido, cantata da Maria Salgado), dalla prepotenza del corpo, che si sfoga in tableaux vivants assemblati come in un impaziente rito tribale.
Ancora una volta la presenza scenica di Bobò, l’anziano sordomuto che accompagna Delbono da molti anni, è determinante nell’operazione, con la sua tenera obbedienza e il suo docile trasformismo. Non c’è bisogno di conoscere la loro storia personale per comprendere il rapporto simbiotico instauratosi tra i due, l’accordo mutualistico con il quale ciascuno offre all’altro la propria solidale diversità.
Ma principalmente, dopo due ore di spettacolo, dalla camera oscura del palcoscenico Delbono emerge dopo bagno di sviluppo, offrendo a se stesso la possibilità di concedersi al pubblico: veemente, citazionista, autoreferenziale, come di consueto.

Lunghi minuti di applausi per la compagnia d’arte Delbono, martedì 28 febbraio alla Città del Teatro di Cascina


Dopo la battaglia
di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballaré, Bobò, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Marigia Maggipinto, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
con la partecipazione di Christophe Clad
scene Claude Santerre
costumi Antonella Cannarozzi
musiche originali Alexander Balanescu
luci Robert John Resteghini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Théâtre du Rond Point- Parigi, Théâtre de la Place – Liegi, Thèatre National de Bretagne, Rennes
si ringrazia: Teatro Pubblico Pugliese e Cinémathèque suisse

da Pisanotizie.it, 29 febbraio 2012