Un regista affermato sceglie un capolavoro della letteratura mondiale, possibilmente un’opera-mondo (per usare la felice espressione di Franco Moretti), e ne fa il pre-testo per le sue immaginose divagazioni sceniche. È un’operazione a cui siamo ormai abituati e che, sia detto per inciso, suscita in me una certa diffidenza, perché mi piacerebbe che i nostri migliori registi e uomini di teatro mettessero la loro creatività, credibilità e celebrità al servizio di una drammaturgia contemporanea, autenticamente originale, per elevarla e diffonderla. Naturalmente, al di là della considerazione personale, non si può non riconoscere nel lavoro di Federico Bellini e Antonio Latella un impulso vitale notevole e a tratti spiazzante. Dopo aver lavorato su Genet, Testori, Shakespeare, Melville, la collaborazione tra lo scrittore e il regista porta adesso alla rielaborazione del romanzo di Cervantes, non con l’intenzione di reinventare o attualizzare il testo, ma rivendicando il diritto a un’esecuzione torrentizia, aritmica, illogica, che mette a dura prova il recensore. Come restituire infatti il senso di uno spettacolo che naviga tra due sponde assai distanti tra loro, da un lato una comicità compiaciutamente triviale, dall’altro una filosofia complessa, concettosa, che prova, addirittura, a discutere il senso della vita, semmai ve ne fosse uno.
Per prima cosa si può dire che entrambe le cifre fanno capo
a Massimo Bellini, interprete di un Don Chisciotte erotomane e istrionesco, ma
anche profondo e appassionato, a cui fa da scudiero e spalla comica Stefano
Laguni, che ricopre con i toni giusti il ruolo di Sancho Panza, sarcastico e
razionale. Lo spettacolo vive dei loro duetti e delle loro tirate, un fiume di
parole che non si può ridire, ma sempre segnato dai due temi, saldamente uniti,
della follia e dell’urgenza di amore.
Latella, fresco di nomina a direttore del Nuovo Teatro Nuovo
di Napoli, decide di lavorare sull’accumulo di elementi scenici e metateatrali
(l’interazione insistita con il pubblico, la nudità esibita come fosse
l’espediente di un regista senza idee, le tracce di improvvisazione non
cancellate). Elementi sovrapposti come “gli strati di una lasagna”, la lasagna
a cui Massimo-Don Chisciotte paragona la drammaturgia; sia la messinscena che
la scrittura sono sature di citazioni (Shakespeare, Brel, Guccini, Alda Merini
per dirne alcuni) e di rimandi, come l’iniziale dialogo stordito e
sgrammaticato col quale i due attori, in tuta nera e pantofole, introducono il
viaggio senza senso di Don Chisciotte e Sancho Panza come fossero i personaggi
di Aspettando Godot (“È l’incontro di due uomini fuori dal tempo. Nessun punto
di partenza, nessuna destinazione, nessuna meta”, si legge del resto nelle
sintetiche note di regia).
I materiali sonori, come inserti o variazioni, accompagnano
la “marcia sul posto” dei due protagonisti, e hanno una loro moderna e coerente
efficacia; così come la scenografia, che sintetizza una sala d’attesa di una
stazione, sullo sfondo due binari verticali con le traverse fatte di luci al
neon. Strisce di luce attraversano e recintano questa stanza, e sopra queste
strisce Sancho dispone i libri di una vita, come a dire che l’unico viaggio
possibile è quello della mente, che si compie attraverso la lettura. Gli stessi
libri che userà infine per proteggere Don Chisciotte, costruendogli un’armatura
o un’imbottitura da kamikaze, prima dell’ultima vorticosa danza liberatoria.
Due ore di spettacolo e consenso non unanime per questo Don
Chisciotte di Antonio Latella, visto al Teatro Francesco di Bartolo di Buti,
martedì 26 gennaio.
Don Chisciotte
regia Antonio Latella
drammaturgia Federico Bellini
con Massimo Bellini e Stefano Laguni
disegno luci: Giorgio Cervesi Ripa
realizzazione scena Clelio Alfinito
realizzazione costumi Cinzia Virguti
regista assistente Tommaso Tuzzoli
da: Pisanotizie.it, 29 gennaio 2010