Se due registi come Klaus Gruber e Cesare Lievi (il primo nel 1984, il secondo nel 2000) hanno desiderato lavorare su questo breve e poco conosciuto studio drammatico di Anton Cechov (uno degli otto atti unici, o vaudevilles, come amava chiamarli l’autore, scritti tra il 1884 e il 1892) un motivo ci sarà. La ragione si nasconde probabilmente nelle pieghe della sua secchezza realistica, nella lugubre e spossata continuità dei suoi dialoghi, nella povertà scura eppure piena di dignità degli intabarrati viaggiatori di passaggio. Un doloroso e fatale messaggio rintocca nella sperduta taverna di Tichon, in cui si respira, come appunta il regista nelle sue note, «il fallimento, l’angoscia dell’esistere, il miraggio di mondi irraggiungibili».
Distanziandosi dalla versione onirica dei due precedenti
allestimenti, immersi in claustrofobici impianti scenografici, Marconcini svuota
interamente la platea e vi arreda la misera locanda, rifugio di reietti e
pellegrini: due tavolacce come branda, qualche sedia, un portaceri e un
disadorno bancone; nella semioscurità il pubblico, come fosse formato da muti e
indiscreti avventori, siede ai margini dello spazio centrale.
Da fuori, ricostruiti con cura, tuoni e scrosci minacciosi annunciano
lo scatenarsi di un nubifragio, l’approssimarsi del gelo sulla strada maestra. Di
tutti i viandanti, che si presentano come tante icone vagolanti nella prima
sulfurea scena, e di cui pochi lampeggianti aneddoti non restituiscono che un vago
profilo, solo uno lascia riaffiorare il proprio straziante passato. È un ricco
possidente, rovinatosi dopo il tradimento della moglie, alcolizzato e ridotto a
implorare l’oste per un bicchiere di vodka. Il suo incubo personale, raccontato
da un suo contadino (interpretato da Giovanna Daddi en travesti), risveglierà la solidarietà pietosa dell’avido taverniere,
del ciarliero operaio e perfino dell’arrogante e bestiale bifolco, gli stessi
che poco prima lo avevano sprezzantemente umiliato.
È a questo punto che Cechov, come nei suoi migliori
racconti, fa incontrare devozione e sfacelo, compassione e violenza. Quando la
moglie dell’uomo, quasi come un allucinazione, si fermerà nella bettola per via
di un incidente alla carrozza, l’ubriaco e delirante marito non avrà forza per
trattenerla, mentre il biasimo e la rabbia degli altri avventori la
costringeranno a fuggire.
Seppure discontinua, la recitazione della nutrita compagnia,
attraverso una dizione non già naturale e sommessa come sarebbe lecito
attendersi, bensì sforzata, faticosa e sopratono, fa emergere quella che
Ripellino chiamò la “malinconia uguagliatrice” del teatro cechoviano; quel
teatro che dell’anima russa ha saputo cogliere come nessun’altro la propensione
all’eccesso e alla dissipazione.
Poco più di un’ora di spettacolo, visto domenica 10 aprile
al Teatro Francesco di Bartolo di Buti.
Sulla strada maestra
di Anton Cechov
regia Dario Marconcini
di Anton Cechov
regia Dario Marconcini
con Mario Matteoli, Catia Leporini, Annalisa Lari,
Francesco Cortoni, Claudio Alfaroli, Paolo Castellano, Gianni Buscarini,
Giovanna Daddi, Chiara Argelli
scene e costumi Leontina Collaceto
allestimento e luci Riccardo Gargiulo, Valeria Foti
produzione Teatro di Buti
scene e costumi Leontina Collaceto
allestimento e luci Riccardo Gargiulo, Valeria Foti
produzione Teatro di Buti
da Pisanotizie.it, 11 aprile 2011