Fa bene rivedere spettacoli del passato. Gli ultimi
affollatissimi, “squilibratissimi” decenni di spettacolo non concedono l’impalcatura
di una memoria, rendono più che difficile riordinare i gradini del cosiddetto
teatro di ricerca, elaborarne una progressione dinamica. Per questo essere
indotti a parlare di un lavoro apparso venticinque anni prima impone una
benefica calibrazione dei parametri di giudizio. Studio per le Serve, spettacolo d’esordio dei torinesi Marcido
Marcidorjs e Famosa Mimosa (metà anni Ottanta), suscitò pareri diseguali ma nessuno
di quanti ebbero modo di parlarne rimase indifferente di fronte alla volontà di
costruire intorno a un testo chiuso e refrattario ad ogni divagazione registica
una gabbia ancora più impenetrabile, che ne aliena i significati portandolo al
solo livello di enunciato. Volontà che sarebbe poi divenuta cifra stilistica
della compagnia, prassi consolidata, filo di un discorso disteso nel tempo (chi
scrive ricorda uno degli ultimi spettacoli della compagnia, in cui un’operazione
analoga è compiuta sul capolavoro di Beckett, L’innominabile).
Su una piattaforma circolare di legno posta dinanzi a un
pannello decorato con festoni sui toni del rosso, alla luce di una lampadina
sospesa, stanno i due interpreti. Maria Luisa Abate (che era già nello
spettacolo originale), sempre eretta, con una passata di bianco sul volto,
proferisce le battute del dialogo tra le due serve: il loro immaginario
progetto di assassinare la padrona, il loro inabissarsi nella rete di perversi
mascheramenti. Tuttavia, la sua straordinaria performance vocale, che lavora su
variazioni timbriche, tra emissioni pastose e chiusure gutturali, decostruisce
il dialogo, rendendolo una sorta di flusso di coscienza pentagrammato. La
personalità patologica delle due donne, che Genet voleva dominate dalla
passione per la finzione, e da questa costrette a un tragico e grottesco
epilogo, non sopravvive a questa condensazione; la messinscena rinuncia ad ogni
riferimento con il testo, come questo rinunciava ad ogni referenza realistica. Così
Paolo Oricco, en travesti (trucco,
striminzita divisa da serva e scarpe décolleté), non ha la funzione di interlocutore, bensì quella di
mera presenza scenica, attributo visivo dello spettacolo: nella prima parte facendo
da sponda alla traccia coreografica e vocale imbastita dalla Abate, alternando
pose imbambolate a torsioni ginniche; durante il monologo finale “ingabbiando” la
sua complice con fili di perle estratti dai pantaloni e agganciati alla pedana,
e adornandola di una corona di mollette da bucato (uno dei segni ritornanti nel
progetto iconico dei Marcido).
Lo spettacolo ri-vive così di questa lettura cerimoniale e
cerimoniosa, indubbiamente destinata ai soli iniziati.
Quasi un’ora di spettacolo, applaudito con modesta
convinzione, al Teatro S. Andrea, giovedì 16 dicembre.
Memoria dello studio per Le serve
Da Le Serve di Jean Genet
regia Marco Isidori
regia Marco Isidori
con Maria Luisa
Abate, Paolo Oricco
scena e costumi Daniela Dal Cin
scena e costumi Daniela Dal Cin
da Pisanotizie.it, 17 dicembre 2010