Dalla platea si osserva frontalmente lo spaccato di un
edificio anonimo, lieve prospettiva di sotto in su. Una finestra dà su un
interno fiocamente illuminato: l’insieme somiglia sinistramente al casotto di
un spettacolo di burattini. Nel minuscolo ambiente abitano una donna, Rose
Hudd, e suo marito, Bert: lei, quasi reclusa, sembra che viva unicamente per difendere
il possesso della stanza; lui, sospettosamente silenzioso, è costretto a uscire
per un lavoro di cui non si sa niente.
La pièce si apre con un one person dialog, una di quelle “conversazioni a una voce” a cui
il cosiddetto Teatro dell’Assurdo ci ha abituato: Rose parla, snocciolando con
voce arrochita considerazioni banali, il marito tace. Uscito quest’ultimo, la
donna riceve la visita di una giovane coppia, dall’atteggiamento poco
rassicurante: sono arrivati da poco eppure sembrano conoscere bene la storia di
Rose. Si mostrano interessati a un appartamento libero nel palazzo, di cui
hanno sentito dire da un altro misterioso inquilino. Proprio quest’uomo,
annunciato anche dal vecchio e inebetito padrone di casa, fa infine visita alla
donna, riportando a galla un passato non meno misterioso, prima di essere
aggredito brutalmente dal marito di ritorno a casa.
Ma a nulla vale sintetizzare l’intreccio se non si è in
grado di riportare l’ambiguità dei dialoghi, il loro rimandare ad altro con
scambi di battute ellittiche, difettose, cariche di una minaccia indescrivibile
che si addensa fino al brusco e apparentemente inevitabile finale. In effetti,
l’atto unico La stanza contiene in
sé, sia pure acerbamente, i segni e i temi della produzione migliore di Harold
Pinter, quella che fa perno sulla secchezza della comunicazione per rivelare la
costipazione della vita sociale e l’insensatezza dei rapporti umani. La
coerente ricerca estetica condotta da Teatrino Giullare (che abbiamo già avuto
modo di commentare su queste pagine) si serve di questo testo del 1957 per
modellare con maggior precisione i propri codici performativi, già saggiati dai
progetti su Beckett, Bernhard, Koltès. Sforzo di modellazione che riguarda
soprattutto la prestazione attoriale, orientata «dall’idea di attore
artificiale, di esplorazione dell’espressività tramite il limite fisico». In
questa direzione, l’invenzione scenica determinante è quella delle maschere
mobili in lattice, che aderiscono perfettamente al volto dell’attore (chi
scrive ricorda una soluzione analoga ideata dal genio quasi dimenticato di
Anton Giulio Bragaglia, che è davvero bello veder “funzionare” qui!); si tratta
di una variazione per così dire ossimorica della funzione della maschera:
perdendo in rigidità acquista in eloquenza, perturbante deformabilità che irrobustisce
l’enigma del testo. Dietro la maschera, le voci giocano a nascondersi, fingendo
d’essere dove non sono e consentendo ai due attori, Giulia Dall’Ongaro e Enrico
Deotti, di interpretare da soli i sei personaggi del dramma, qui recitato sulla
base della traduzione moderna e impeccabilmente “teatrale” di Alessandra Serra.
Circa 50 minuti di spettacolo, ben accolto dalle
gradinate affollatissime del Teatro S. Andrea.
La stanza
di Harold
Pinter
traduzione di
Alessandra Serra
interpretato,
diretto e costruito da Teatrino Giullare - Giulia Dall’Ongaro e Enrico
Deotti
scene e maschere
Cikuska
produzione
Teatrino Giullare / CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
da Pisanotizie.it, 11 novembre 2010