10 novembre 2010

Questa Stanza è una prigione per maschere



Dalla platea si osserva frontalmente lo spaccato di un edificio anonimo, lieve prospettiva di sotto in su. Una finestra dà su un interno fiocamente illuminato: l’insieme somiglia sinistramente al casotto di un spettacolo di burattini. Nel minuscolo ambiente abitano una donna, Rose Hudd, e suo marito, Bert: lei, quasi reclusa, sembra che viva unicamente per difendere il possesso della stanza; lui, sospettosamente silenzioso, è costretto a uscire per un lavoro di cui non si sa niente.
La pièce si apre con un one person dialog, una di quelle “conversazioni a una voce” a cui il cosiddetto Teatro dell’Assurdo ci ha abituato: Rose parla, snocciolando con voce arrochita considerazioni banali, il marito tace. Uscito quest’ultimo, la donna riceve la visita di una giovane coppia, dall’atteggiamento poco rassicurante: sono arrivati da poco eppure sembrano conoscere bene la storia di Rose. Si mostrano interessati a un appartamento libero nel palazzo, di cui hanno sentito dire da un altro misterioso inquilino. Proprio quest’uomo, annunciato anche dal vecchio e inebetito padrone di casa, fa infine visita alla donna, riportando a galla un passato non meno misterioso, prima di essere aggredito brutalmente dal marito di ritorno a casa. 

Ma a nulla vale sintetizzare l’intreccio se non si è in grado di riportare l’ambiguità dei dialoghi, il loro rimandare ad altro con scambi di battute ellittiche, difettose, cariche di una minaccia indescrivibile che si addensa fino al brusco e apparentemente inevitabile finale. In effetti, l’atto unico La stanza contiene in sé, sia pure acerbamente, i segni e i temi della produzione migliore di Harold Pinter, quella che fa perno sulla secchezza della comunicazione per rivelare la costipazione della vita sociale e l’insensatezza dei rapporti umani. La coerente ricerca estetica condotta da Teatrino Giullare (che abbiamo già avuto modo di commentare su queste pagine) si serve di questo testo del 1957 per modellare con maggior precisione i propri codici performativi, già saggiati dai progetti su Beckett, Bernhard, Koltès. Sforzo di modellazione che riguarda soprattutto la prestazione attoriale, orientata «dall’idea di attore artificiale, di esplorazione dell’espressività tramite il limite fisico». In questa direzione, l’invenzione scenica determinante è quella delle maschere mobili in lattice, che aderiscono perfettamente al volto dell’attore (chi scrive ricorda una soluzione analoga ideata dal genio quasi dimenticato di Anton Giulio Bragaglia, che è davvero bello veder “funzionare” qui!); si tratta di una variazione per così dire ossimorica della funzione della maschera: perdendo in rigidità acquista in eloquenza, perturbante deformabilità che irrobustisce l’enigma del testo. Dietro la maschera, le voci giocano a nascondersi, fingendo d’essere dove non sono e consentendo ai due attori, Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti, di interpretare da soli i sei personaggi del dramma, qui recitato sulla base della traduzione moderna e impeccabilmente “teatrale” di Alessandra Serra.

Circa 50 minuti di spettacolo, ben accolto dalle gradinate affollatissime del Teatro S. Andrea.


La stanza
di Harold Pinter
traduzione di Alessandra Serra
interpretato, diretto e costruito da Teatrino Giullare - Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti
scene e maschere Cikuska
produzione Teatrino Giullare / CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia

da Pisanotizie.it, 11 novembre 2010