23 luglio 2010

I videogiochi di stoffa di Antonio Rezza



Sembra che vi sia pochissimo negli spettacoli di Antonio Rezza, che la loro costruzione sfiori l’improvvisazione o l’amatorialità. Invece trovandosi a scriverne si fa fatica a contenerne tutti gli elementi, i dati, le impressioni.
Per prima cosa c’è una scena instabile e mutante, un quadro sgargiante fatto di sottili stoffe coloratissime e teli forati appesi a un’esile architettura di fili metallici. Un ambiente di immaginaria geometria, abitato come fosse un tableau vivant da una serie di personaggi irregolari (individui senza storia e senza forma, non reali ma supplenti di una realtà minorata, a cui si allude appena, per dichiararla prossima al decadimento); sicché il binomio “scene e costumi”, spesso risultato di una sola figura professionale, è in questo caso davvero indissolubile, le scene essendo i costumi e viceversa, ideati e realizzati dall’inseparabile Flavia Mastrella, compagna di lavoro da più di vent’anni.
C’è poi il corpo scenico di Rezza, solista stregonesco che da posseduto diventa repentinamente possessore. Come invasato, il volto-maschera dell’attore ospita identità compresse e represse, ciascuna per ogni fessura nei teli, alla quale sembra corrispondere o rimanere impigliata seguendo una indecifrabile linea drammaturgica; per poi in un istante trasformarsi in un molesto e ingiurioso protagonista che sputa sulle prime file palline di carta insalivate. Non meno plastica del corpo è la voce, perversa o assottigliata, grottesca o sfacciata, comunque mai realistica, continuamente trasfigurata da un interruttore invisibile nel restituire le tonalità scalari di un dialogo impossibile.

C’è una lingua teatrale che basterebbe poco a definire disinibita, provocatoria, pronta allo scherno e incline al turpiloquio, ma che con più spirito di osservazione conviene considerare come il frutto di un calcolo statistico. Il parlare di Rezza somma babelicamente il parlato dell’uomo di oggi: la sua ignoranza balbettante, la sua volgarità disinvolta e quasi inconsapevole, la sua repressa ferocia e la sua vigliaccheria.
Le incursioni di un morbido disco giallo, in cui Rezza infila mani e testa come in una gogna per bambini, producono le invettive più pesanti: è l’“Io” del titolo, un buffone egocentrico ai limiti della volgarità, quasi si trattasse di un gioco di ruolo sfuggito al controllo… e alla censura.
Infine c’è il pubblico, sopraffatto da un riso soffocante (e talora soffocato), quando Rezza trova il nervo scoperto della nostra inibizione e pronuncia l’impronunciabile, demolisce la logica, smaschera le contraddizioni, proferisce i tabù (il sesso, la religione, la morte). Un pubblico, il suo, che si può sempre facilmente dividere – basta uno sguardo – tra quelli-che-lo-conoscono-già e quelli-che-non-lo-conoscono-ancora; del resto Rezza è un performer che ha nel corpo degli spettatori il suo reagente e la misura dei suoi spettacoli è in funzione della risposta che riceve.

Preceduto da una sorta di proemio, in cui si rivedono le interviste “a corpo libero” raccolte sulla strada per il reportage Troppolitani (realizzato circa dieci anni fa per Rai3), e seguito da una serie di uscite esilaranti in cui Rezza e il pubblico si incalzano a vicenda, Io raggiunge quasi le due ore, nella piazza Matteotti di Lari, venerdì 23 luglio 2010. 

da Pisanotizie.it, 24 luglio 2010