Sembra che vi sia pochissimo
negli spettacoli di Antonio Rezza, che la loro costruzione sfiori
l’improvvisazione o l’amatorialità. Invece trovandosi a scriverne si fa fatica
a contenerne tutti gli elementi, i dati, le impressioni.
Per prima cosa c’è una scena instabile
e mutante, un quadro sgargiante fatto di sottili stoffe coloratissime e teli forati
appesi a un’esile architettura di fili metallici. Un ambiente di immaginaria
geometria, abitato come fosse un tableau vivant da una serie di
personaggi irregolari (individui senza storia e senza forma, non reali ma
supplenti di una realtà minorata, a cui si allude appena, per dichiararla prossima
al decadimento); sicché il binomio “scene e costumi”, spesso risultato di una
sola figura professionale, è in questo caso davvero indissolubile, le scene essendo
i costumi e viceversa, ideati e realizzati dall’inseparabile Flavia Mastrella,
compagna di lavoro da più di vent’anni.
C’è poi il corpo scenico di
Rezza, solista stregonesco che da posseduto diventa repentinamente possessore. Come
invasato, il volto-maschera dell’attore ospita identità compresse e represse,
ciascuna per ogni fessura nei teli, alla quale sembra corrispondere o rimanere
impigliata seguendo una indecifrabile linea drammaturgica; per poi in un istante
trasformarsi in un molesto e ingiurioso protagonista che sputa sulle prime file
palline di carta insalivate. Non meno plastica del corpo è la
voce, perversa o assottigliata, grottesca o sfacciata, comunque mai realistica,
continuamente trasfigurata da un interruttore invisibile nel restituire le
tonalità scalari di un dialogo impossibile.
C’è una lingua teatrale che
basterebbe poco a definire disinibita, provocatoria, pronta allo scherno e incline
al turpiloquio, ma che con più spirito di osservazione conviene considerare
come il frutto di un calcolo statistico. Il parlare di Rezza somma babelicamente
il parlato dell’uomo di oggi: la sua ignoranza balbettante, la sua volgarità
disinvolta e quasi inconsapevole, la sua repressa ferocia e la sua
vigliaccheria.
Le incursioni di un morbido disco
giallo, in cui Rezza infila mani e testa come in una gogna per bambini,
producono le invettive più pesanti: è l’“Io” del titolo, un buffone egocentrico
ai limiti della volgarità, quasi si trattasse di un gioco di ruolo sfuggito al
controllo… e alla censura.
Infine c’è il pubblico,
sopraffatto da un riso soffocante (e talora soffocato), quando Rezza trova il
nervo scoperto della nostra inibizione e pronuncia l’impronunciabile, demolisce
la logica, smaschera le contraddizioni, proferisce i tabù (il sesso, la
religione, la morte). Un pubblico, il suo, che si può sempre facilmente
dividere – basta uno sguardo – tra quelli-che-lo-conoscono-già e
quelli-che-non-lo-conoscono-ancora; del resto Rezza è un performer che ha nel
corpo degli spettatori il suo reagente e la misura dei suoi spettacoli è in
funzione della risposta che riceve.
Preceduto da una sorta di
proemio, in cui si rivedono le interviste “a corpo libero” raccolte sulla
strada per il reportage Troppolitani (realizzato circa dieci anni fa per
Rai3), e seguito da una serie di uscite esilaranti in cui Rezza e il pubblico
si incalzano a vicenda, Io raggiunge quasi le due ore, nella piazza
Matteotti di Lari, venerdì 23 luglio 2010.
da Pisanotizie.it, 24 luglio 2010